Questione islamica

La nuova sfida della deradicalizzazione – Intervista a Valentina Bartolucci

18 Novembre 2015

Secondo i nostri schemi logici e valoriali, il fenomeno dei foreign fighters risulta quasi inspiegabile. Cittadini comunitari, in alcuni casi anche provenienti da classi medie o da contesti sociali piuttosto agiati, che si arruolano nelle file delle organizzazioni terroristiche – e vengono addestrati non solo per combattere in Siria o in Iraq, ma anche per compiere attentati in patria. Come individuarli e fermarli? La questione interessa, in primo luogo, le intelligence del mondo occidentale.

Ma si tratta di una questione puramente strategica, di cui devono occuparsi esclusivamente i servizi di contro terrorismo? Oppure, dopo l’orrore a cui abbiamo assistito a Parigi, è la stessa società civile europea a doversi confrontare con la possibilità della radicalizzazione islamista dei suoi membri?

Secondo l’opinione di Valentina Bartolucci – docente di Sociologia del Conflitto e della Pace all’Università di Pisa ed esperta di terrorismo e contro-terrorismo – occorre agire a partire dai punti nevralgici delle nostre società, in particolare scuole e carceri, per stroncare sul nascere i fenomeni di radicalizzazione.

Lei si è occupata specialmente del reclutamento di donne e adolescenti da parte delle organizzazioni terroristiche. Come avviene, in prima istanza, questo reclutamento?

Il primo contatto avviene, nella gran parte dei casi, a livello personale: conoscenti, magari anche amici stretti o fidanzati. Poi, come è noto, le organizzazioni islamiste sono molto presenti sul web, sia aperto che sommerso. Fatima, la ragazza napoletana convertitasi al jihad, è stata adescata su Skype. Il reclutamento non avviene nelle moschee, come afferma una certa propaganda politica. I reclutatori online sono molto preparati: inviano libri e altro materiale. Lavorano per mesi gli aspiranti militanti, che generalmente sono molto giovani, anche sotto i vent’anni. Non è da sottovalutare, in questi casi, il ruolo che gioca la voglia di avventure e il sogno di una vita romantica.

 La radicalizzazione in Europa è un fenomeno che interessa preminentemente le seconde e terze generazioni di immigrati. Può esistere un modello di integrazione di successo, che impedisca alle organizzazioni terroristiche di trovare un terreno fertile?

Da parte delle seconde o terze generazioni vi è un netto rifiuto dei valori occidentali e un desiderio di riavvicinarsi alle proprie radici; l’Occidente è visto esclusivamente come idolatra del denaro o dei beni materiali.

Il modello di integrazione inglese rischia di condurre a una ghettizzazione delle varie comunità. Ma anche il modello assimilativo francese ha i suoi limiti. La marginalizzazione delle banlieues è uno dei fattori che contribuiscono alla nascita dell’estremismo.

Sicuramente la soluzione è andare verso una maggiore apertura, non solo politica, ma anche di mentalità. Un primo punto da cui bisogna partire è la scuola, l’educazione. In Francia, in alcuni quartieri a maggioranza araba, esistono solo scuole di serie B.

Uno dei luoghi dove la radicalizzazione avviene in prima istanza sono le carceri. Ma come si fa a convincere le opinioni pubbliche che serve un intervento di integrazione (e quindi uno sforzo collettivo, sia sociale che finanziario), a partire dai luoghi più sensibili, come carceri e scuole?

È vero, i carcerati, anche arrestati per crimini di minore entità possono radicalizzarsi all’interno della prigione. L’intervento è difficile, specialmente in un contesto come quello italiano. Ma qualcosa va fatto.  Interventi del genere non saranno mai popolari, l’opinione pubblica va sensibilizzata. E uno sforzo significativo può partire anche dalla società civile.

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