Governo
La memoria di Lo Porto merita un pubblico ristretto di quaranta deputati
Giovanni Lo Porto è morto, questo lo sappiamo. Da troppo poco, ma lo sappiamo. Un intervento alleato guidato da droni militari -così pare- l’ha ucciso il 28 gennaio scorso, insieme all’esperto di sviluppo statunitense Warren Weinstein, al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan. Giovanni era stato rapito nel gennaio 2012 a Multan, nel nord del Pakistan, Warren un anno prima. Giovanni è morto da tre mesi ed è stato prigioniero per tre anni. Era un cooperante, e probabilmente ai più risulterà solo “il cooperante”, anzi ad alcuni risulterà solo “un cooperante”. Ai più risulterà un nome sconosciuto anche se così famigliare, ad altri risulterà “uno”, altri ancora più saggiamente si chiederanno cosa sia un cooperante, forgiando magari la propria idea sul collage di foto che scorrono dappertutto. Giovanni Lo Porto il cooperante: foto con sorrisi, bambini, magliette, bandane, bermuda. Foto di lavoro all’estero, foto che raccontano una vita, una carriera e una missione, più che un’esperienza volontaria. Una missione per se stessi e poi per gli altri, in cui entra soprattutto la voglia di far bene il proprio mestiere completando il proprio percorso umano, e professionale. Come tutti, almeno in teoria.
Siciliano, classe 1977, Lo Porto lavorava per la Welthungerhilfe, una ONG tedesca privata e senza scopo di lucro, attiva nel contrasto alla fame nel mondo, ed era in Pakistan per lavorare alla faticosa ricostruzione successiva all’alluvione del 2011: in particolare Giovanni si occupava di un progetto di ricostruzione della rete idrica per favorire l’afflusso di acqua potabile. Laureato negli Stati Uniti, specializzatosi a Londra, era esperto nella gestione di conflitti. In precedenza aveva ricoperto il ruolo di capo progetto per il Gvc, Gruppo volontario civile di Bologna, per Cesvi Fondazione Onlus e per Coopi Cooperazione Internazionale. Ha lavorato in Croazia, in Bosnia, in Birmania, in Africa con l’Unicef per un progetto anti malaria, e ad Haiti durante la drammatica gestione del dopo-terremoto, nel 2010.
Giovanni era un professionista, Giovanni era uno dei tanti ingegni che può produrre questo paese. Lo dico perché nonostante i quotidiani si siano prodigati, con scarna descrizione personale, a renderlo un caso diplomatico da impugnare, la propulsione emotiva non è la stessa a cui siamo abituati in altre tristi ricorrenze simili. Lungi da noi impostare un discorso di benaltrismo impostando la triste hit parade della commemorazione, quel che però colpisce, come un pugno nello stomaco, sono i numeri dei deputati presenti in aula al discorso di Gentiloni su Lo Porto: una quarantina di onorevoli, più o meno. Il che vuol dire aula deserta. Domanda senza provocazione: se Lo Porto fosse stato in forza all’Esercito Italiano, quanti sarebbero stati i parlamentari in aula? Non è un quesito da risolvere, ma è una domanda legittima.
Ovviamente in molti daranno la colpa alle strumentalizzazioni politiche, all’inadeguatezza di Renzi e del governo nella tardiva comunicazione della tragedia, alle polemiche su Gentiloni. Resta comunque la realtà di un deserto umano, un deserto istituzionale assolutamente inconcepibile di fronte a una sciagura di questa portata.
Varie e articolate analisi si stanno già dipanando su quella che resta ancora una vicenda piena di nebbia e difficile da spiegare.
Difficile da spiegare a un bambino, che ti chiede se gli alleati non siano in fondo nostri amici, difficile da spiegare a quella metà del paese che inquadra il cooperante come un mondialista irresponsabile alla stessa stregua di Greta e Vanessa, volontarie anomale e non cooperanti.
Quella di Lo Porto è una professione che richiede competenze di alto livello, che richiede empatia, fatica, che contempla l’offerta, l’insegnamento, il tentativo di porre un aiuto attraverso conoscenza. Lo Porto rappresenta un mondo molto ampio in cui troppo spesso ci si infila di tutto, e in cui non sempre le cose che dovrebbero funzionare poi lo fanno realmente. Più volte mi sono trovato a discutere con amici cooperanti dei miei dubbi sulla bontà di queste iniziative, dubbi che solitamente sparivano di fronte allo spessore di uomini che ammettono per primi le lacune di un sistema abnorme, ma che al contempo riescono a spiegarti la quotidianità di delicatissimi interventi sociali di umanità straordinaria in cui le differenze culturali vengono trattate con guanti grazie a competenze e professionalità complesse, forgiate nel tempo e sul campo.
Certo che poi gli affari politici entrano anche in questi ambiti, naturale una certa diffidenza verso un mondo comunque non avulso al male, ma da non totalizzare. Sono ancora ben impresse le reazioni scomposte di fronte a Greta e Vanessa, anche se non cooperanti, anche se non professioniste. Fortunatamente in questo caso non sono arrivati gli insulti a Giovanni, forse perché già morto, forse perché non gravato da un riscatto oneroso. Quel che però si nota non avulsi da un certo disappunto è quanto in questi casi difficilmente l’empatia si muova in direzione della persona, del lavoratore, della serietà di un compito. Come se il paese riconoscesse sempre l’abito, ma mai il monaco. Oggi non si parlava di Giovanni ma si parlava di Obama e di Renzi, Giovanni non è trattato come un eroe né come un martire, perché se un drone alleato uccide un cooperante non c’è nulla di cui vantarsi. Certo nessuno lo vuole eroe e nessuno lo vuole martire, la madre vuol piangerlo in silenzio, il paese ha il dovere di dare un accenno di anima a quelle foto.
Perché poi ti trovi una deputata leghista, Barbara Saltamartini, secondo cui «lo Stato italiano non può più permettere di far partire nostri connazionali e di mandarli in territori dove è altissimo il rischio per la loro vita, e quindi la vita di un italiano, ma anche altissimo -prosegue la Saltamartini- il rischio che lo Stato deve correre per poterli andare a salvare».
Insomma, se tu fai il collaboratore per una ONG tedesca che riallaccia la rete idrica sei un irresponsabile, perché costringi il tuo Stato a mettersi nella condizione di doverti salvare -cosa che non riesce sempre, per altro-. Un po’ come dire “se vai in giro con la gonna corta te la cerchi”. Eppure c’è da dire che da buona salviniana l’onorevole Saltamartini avrebbe comunque avuto l’opportunità quantomeno di confermare il discorso del famoso “aiutiamoli a casa loro” tanto caro al suo leader: evidentemente c’è stato un ulteriore cambio di programma. Oppure chissà, per essere considerati alte e nobili figure professionali è obbligatorio non solo essere italiani ma anche possedere il fascino della divisa istituzionale.
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