Questione islamica
La dimensione inconscia della radicalizzazione islamista
Ho conosciuto Silvia Pierantoni Giua nel 2015, nella cornice del gruppo di teatro emozionale “Into the Aquarius”; dallo scorso autunno si è trasferita a Parigi per svolgere il “Master Recherche en Psychanalyse” alla Sorbona, che ha terminato nel giugno scorso. In prossimità della sua laurea, le ho chiesto di raccontarmi del suo lavoro.
La tua tesi si intitola “La radicalizzazione islamista: un narcisismo perfetto”. Ti va di parlarmene?
Ho deciso di usare il termine radicalizzazione perché – nella letteratura recente – descrive un atteggiamento di fondo da cui talvolta emergono fenomeni come estremismo e terrorismo. Nello specifico, parlo di radicalizzazione islamista perché agisce in nome dell’Islam.
Anzitutto, l’apporto che vorrebbe dare la mia tesi si situa nella prospettiva della psicanalisi: la radicalizzazione è stata affrontata da pensatori di varie discipline, mentre dal punto di vista psicanalitico non è ancora molto studiata. Nello specifico, mi sono molto ispirata a Fethi Benslama – psicanalista di origine tunisina, trasferito a Parigi da diversi anni e direttore del dipartimento di Ricerca di Psicoanalisi a Paris Diderot – che ha diretto la mia tesi. Le sue riflessioni sono particolarmente illuminanti e così ho deciso di seguire le sue tracce: nel libro “L’ideale e la crudeltà” analizza il fenomeno della radicalizzazione all’interno di una problematica di ideale e di identità. Ho trovato più affascinante questa prospettiva rispetto a quella che attribuisce la responsabilità esclusivamente all’Islam.
La conoscenza dell’arabo ti consente anche l’accesso diretto ad alcune fonti
Sono laureata in “Lingue per la Cooperazione Internazionale”: ho studiato la lingua e la letteratura araba, ma non sono né teologa né musulmana. Tuttavia, da parecchi anni coltivo l’interesse per la cultura arabo-islamica; attualmente, in particolare, desideravo approfondire il fenomeno della radicalizzazione così detta “islamista” per vederci più chiaro. La mia prospettiva – partendo dall’ideologia e dall’ideale più che dalla religione – fa luce su alcune incongruenze: ad esempio sul fatto che un’alta percentuale di aderenti alla “causa” non erano musulmani né si dichiaravano tali fino a poco prima di passare all’azione terrorista. In effetti, per convertirsi all’Islam è sufficiente dire “Nel nome di Dio, clemente e misericordioso”.
Un po’ poco…
Per dire: di che conversione si tratta? Non per sminuire il fatto in sé, ma se uno aderisce a una religione è perché la conosce; in realtà emerge che la maggior parte di questi convertiti non sa nemmeno cosa siano i “Cinque Pilastri” dell’Islam, equiparabili per importanza ai nostri “Dieci Comandamenti”.
Non è che io voglia difendere l’Islam a priori, ma mi interessa avere un approccio critico, non appiattirmi su dei pregiudizi che trovo anche lontani dalla realtà. Ho fatto una ricerca sui video girati prima degli attacchi kamikaze: bisogna ricordare innanzitutto che il suicidio è condannato anche nella religione islamica; il martire è colui che si fa uccidere per non abiurare, è un soggetto passivo. Il termine martirio “istischad” proviene da un verbo che di per sé è passivo “ustischadu”.
E ancora, i giurisperiti islamici dividono la “Jihad Piccola” e la “Jihad Grande” la quale, in particolare, è lo sforzo interiore per superare le proprie passioni, per maturare, per diventare migliore. Poi c’è anche un’altra Jihad, per la Guerra difensiva. Nel linguaggio comune, però, “Jihad” indica solamente la Guerra Santa, cancellando le altre accezioni.
Ho selezionato un video girato in lingua araba postato su internet nel 2013 a Homs, in Siria. E’ ben montato e costruito, con sottotitoli e musica. Il protagonista è un mujiaeddin, intervistato da una voce fuori campo a proposito dell’attacco che sta per compiere. Durante il corso del video vengono citate alcune sure che ho poi analizzato: quindi certamente il Corano viene utilizzato per perorare la causa dei mujiaeddin. Mi sono concentrata anche sulle ricorrenze di determinati termini: “Dio/Allah” viene ripetuto circa 50 volta; anche il termine “Onnipotente” è molto presente, quasi a voler sottolineare una mania di grandezza.
Questo video l’hai trovato facilmente?
No, la cosa più facile è trovare video di mujaeddin palestinesi: in quel caso esiste un sito apposito. È stato molto semplice anche scaricare riviste di Daesh in pdf, con foto bellissime. Ho preferito evitare la questione della Palestina, perché il contesto è molto particolare. Nel video che ho selezionato il viso del ragazzo è camuffato: il protagonista dovrebbe provenire dal Medio Oriente e parla arabo; racconta di sé, è un individuo che spiega le proprie motivazioni rispetto a questa scelta, incrostando il suo discorso di citazioni coraniche.
L’ultima parte del video è molto interessante perché mostra la dimensione gruppale e familiare del video: è girata all’esterno, con i panni stesi. Un minuto intero è dedicato agli abbracci finali. Anche gli altri protagonisti del video non appaiono a viso scoperto.
Com’è che un individuo si annulla per questo ideale? Dice Freud, l’ideale è la proiezione sull’altro di quello che era l’ideale dell’Io. Uno scritto particolarmente interessante in proposito è “Lo stato dello specchio” di Lacan, che descrive il “narcisismo primitivo” – stadio normalmente attraversato dal bambino di 6-8 mesi – nel quale il soggetto si specchia e ciò che vede è il riflesso del proprio ideale dell’io. Ma questo riflesso coincide con l’altro: l’io e l’altro sono la stessa cosa per il bambino. È necessario un distacco per fare sì che l’io possa essere davvero in grado di avere una relazione con l’altro: ed è questo distacco che per alcuni è così doloroso da essere evitato; abbiamo tutti nostalgia di questa epoca di fusione, in cui ci si perde l’uno nell’altro, e che per alcune personalità può essere molto pericoloso.
L’ideologia islamista – a mio avviso – offre ad alcune persone un escamotage perché toglie il soggetto dall’impasse di confrontarsi con la propria dimensione soggettiva, con le proprie contraddizioni, con il proprio inconscio, ponendo la parte problematica al di fuori di sé, identificandola con un nemico esterno. Non si tratta quindi di una guerra dell’Islam contro l’Occidente e i suoi valori frivoli. Come dice Julia Kristeva “lo straniero ci abita”: questa è una guerra contro tutti, anzitutto contro di sé.
Non a caso molte vittime degli attentati “kamikaze” sono a loro volta musulmani
Esattamente, perché non sono abbastanza musulmani. È il concetto di “surmusulman” di Fethi Benslama. Siamo di fronte a un “Islam virile”: coloro che si fanno esplodere si ritengono più musulmani, più arrabbiati, più martiri.
Sebbene sia una questione molto complessa e difficile da trattare in poche righe, si può aggiungere che questo sedicente stato islamico basi la propria esistenza e propaganda su quello che Benslama chiama “ideale musulmano ferito”: la comunità musulmana ha perso il principio della sovranità politico- teologica con la dissoluzione dell’Impero Ottomano nel 1924. È indicativo che “La fratellanza musulmana” – la prima organizzazione islamista – sia stata fondata nel 1928: potremmo dire che in quegli anni presero corpo i movimenti islamisti e prese il via anche un processo di radicalizzazione. Nel prosieguo del XX secolo – con la spartizione del Medio Oriente tra le potenze europee, il conflitto Israelo-Palestinese e le guerre in Afghanistan e Iraq – le immagini di distruzione e di morte sono state utilizzate come una chiamata alle armi. Le sofferenze della comunità musulmana, in questa idealizzazione, vengono proiettate direttamente sulla vita dell’individuo e richiedono una difesa violenta.
Approfondimento su” ideale musulmano ferito” (in lingua inglese)
Sembra che il numero dei foreign fighters stia diminuendo – sebbene non drasticamente – anche a causa delle minori risorse economiche dell’Isis. Mi viene in mente che – mancando i mezzi per “offrire” un’alternativa idilliaca – questa fusione con un ideale di perfezione sia meno allettante. Cosa ne pensi?
Non saprei…In molti casi sì, c’è in gioco un aspetto economico importante, per esempio un “risarcimento” in termini di denaro ai parenti del mujaheddin. Tuttavia non penso che questo sia l’aspetto principale di questo fenomeno, il motivo che spinge questi soggetti ad aderire al progetto dell’Isis, banalmente perché non saranno soldi di cui potranno godere. L’idillio proposto è la vita dopo la morte; si tratta di un ribaltamento di senso: la vita è la morte, la morte è la vita. Questo capovolgimento funziona perché queste persone percepiscono la vita come morte o, nel caso di alcuni adolescenti, come un gioco da sfidare: grazie ad un delirio di onnipotenza per cui si sentono in potere di decidere come e quando porre fine alla propria vita con un’azione “eroica”, la vita viene svuotata del suo significato e ridotta a una semplice partita di cui loro sarebbero gli eroi vincitori.
Quello che mi stupisce è che non ci sia spazio per il minimo dubbio
È quello il problema: si arriva a uno stadio in cui c’è un’abdicazione totale al pensiero, alla complessità che fa parte della realtà; ti sovrapponi a un ideale e non c’è più spazio per altro, per il dialogo.
Si abbandona il proprio senso critico a favore di una dimensione ideale e “onnipotente”, che rende possibile il ritorno a una fusione infantile. Alla base di questa radicalizzazione c’è un disagio identitario. Si è studiato soprattutto la dimensione sociologica – la povertà, la banlieue…- L’approccio psicoanalitico consente di comprendere la portata sempre più ampia e trasversale del fenomeno e permette di avere uno sguardo diverso, un’analisi critica di come si sta trattando il fenomeno, a cominciare dal concetto di “de-radicalizzazione”.
Spiegami meglio questa de-radicalizzazione
In questa visione l’uomo viene trattato come una macchina, seguendo un’approccio puramente cognitivista; in Francia, ad esempio, la sociologa Dounia Bouzar ha messo a punto una tecnica che – attraverso musica e altri stimoli – sarebbe in grado di “de-radicalizzare” gli estremisti. Secondo me, tecniche come questa vogliono estirpare un’ideologia ignorando completamente la dimensione dell’inconscio, anzi rimuovendola: cadendo così nello stesso meccanismo in cui si incagliano gli individui prigionieri del narcisismo primitivo. A mio parere si tratta quindi di tecniche illusorie: non mi sembra possibile far tornare “indietro” queste persone tramite un processo meccanico.
Approfondimento sul lavoro di Dounia Bouzar (in lingua inglese)
Quale potrebbe essere quindi un approccio alternativo?
Prevedere la possibilità che questi soggetti a rischio possano affrontare il proprio disagio, anziché evitarlo col ricorso all’ideologia. Con questo non sto cercando di giustificare gli atti di terrorismo: tuttavia non è trattando queste persone come macchine da de-programmare che si risolve il problema. Una visione psicanalitica permette di affrontare il problema del disagio identitario e soggettivo da una prospettiva più umanizzante, guardando alla ideologia islamista come uno dei possibili oggetti ideali, come potrebbero essere una sostanza stupefacente, o una setta.
Immagine di copertina tratta da http://malaguarnera-psy.wifeo.com/index-fiche-6076.html
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