Partiti e politici

La caduta di Kabul e le ragioni di Gino Strada

16 Agosto 2021

Le tortuose strade del destino hanno fatto coincidere la morte di Gino Strada con la presa di Kabul da parte dei Talebani. Malgrado i santini agiografi innegabili verso la scelta di vita di rinunciare a tutto pur di salvare vite umane, il chirurgo milanese non godeva di altrettanto rispetto per la propria visione del mondo. Le immagini degli elicotteri americani che dopo vent’anni evacuano i propri concittadini dalla capitale afghana, non fanno altro che rivalutare anche la capacità di analisi di Gino Strada.

 

Il fondatore di Emergency era un personaggio scontroso e iroso, che di fronte ai problemi politici si scaldava fino a minacciare di chiudere uno degli ospedali sparsi per il mondo. Agli occhi di chi sta tranquillo al suo posto, poteva ricordare un vulcanico presidente di società calcistiche. Come quella volta che i talebani rapirono il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Per ironia della sorte, il loro capo era l’ex ministro della salute Mullah Abbas Akhund, il cui fanatismo causò l’allontanamento di Emergency da Kabul nei mesi precedenti all’11 settembre. Il centrosinistra che governava il belpaese nel 2008, chiese alla ONG di intervenire, ma, subito dopo la liberazione di Mastrogiacomo, il governo afghano arrestò il mediatore di Emergency, con l’accusa di aver partecipato al sequestro. L’arresto ebbe breve durata, ma il chirurgo milanese non aspettò a scagliarsi contro il governo italiano colpevole di aver prima usato e poi abbandonato uno degli uomini della ONG.

 

Per non parlare di quando Franco Frattini, ministro degli esteri del governo Berlusconi IV, faticò a schierarsi contro il governo afghano che aveva arrestato tre operatori italiani di Emergency con l’accusa di terrorismo. Le reazioni di Gino Strada appaiono violente, ma più che comprensibili se una volta tanto provassimo a vedere il mondo con gli occhi di chi opera i pazienti mentre le bombe passano sopra la testa.

 

Impossibilitati a calarci nei suoi panni, troppo spesso abbiamo considerato Gino Strada un utopista dal caratteraccio. Io stesso mettevo la fascetta di Emergency sullo specchietto del motorino e prendevo gli appunti di matematica sul quaderno comprato nel tradizionale banchetto di Festambiente, ma separavo gli ideali dalla realpolitik. La guerra in Afghanistan pareva necessaria a molti esponenti della sinistra tradizionale, perché si riteneva impossibile trattare con un regime che opprimeva le donne, ospitava i terroristi e aveva barbaramente eliminato il generale Massoud, il leone del Panchir, comandante mitico che ai nostri occhi incarnava una nobile resistenza.

 

Dopo venti anni di guerra, la bandiera talebana sventola sul palazzo presidenziale di Kabul. Ovviamente sono cambiate molte cose dal 2001. Gli Stati Uniti hanno effettivamente ridimensionato Al Qaida e i Talebani appaiono molto meno pericolosi. L’acerrimo nemico si è seduto al tavolo dei negoziati a Doha, ha firmato accordi con gli Stati Uniti di Donald Trump e stabilito legami diplomatici con Cina e Russia, due paesi che combattono da anni il fondamentalismo all’interno dei propri confini. Il disastro degli ultimi giorni è uno schiaffo a Washington, ma non dovrebbe innescare conseguenze rovinose.

 

L’Emirato Islamico dell’Afghanistan sarà probabilmente uno stato totalitario, durissimo da vivere, ma non un covo di fanatici che promuovono il terrorismo internazionale. Al contrario, la creazione di uno stato solido e democratico si è rivelata un’utopia. Una semplice guerra di intelligence, costituita da operazioni di spionaggio e di polizia, avrebbe potuto ottenere il medesimo risultato, senza bombardare un intero paese e fare innumerevoli vittime civili.

 

In Buskashì, il libro scritto nel 2002 per raccontare il viaggio verso Kabul dopo l’11 settembre, Gino Strada paragona la guerra di George W. Bush al bombardare Reggio Calabria per sconfiggere l’’ndrangheta. Oggi il bilancio è impietoso, l’occidente scappa dopo aver creato macerie e ucciso civili innocenti, in cambio di una manciata di infrastrutture e di una democrazia corrotta e incapace a camminare sulle proprie gambe. Malgrado l’atteggiamento utopista e i toni bellicosi con cui scalciava la classe politica, la storia ha dato ragione a Gino Strada.

 

La tragedia afghana ha come contraltare la farsa italiana. Mentre il centrosinistra dovrebbe fare autocritica e chiedere scusa per gli errori colossali, leggo vecchi compagni di partito che enfatizzano come gli sbagli della comunità internazionale non si concentrino tanto nella guerra quanto nella gestione della pace. Leggo un’intervista all’ex premier Matteo Renzi dai toni disgustosi che sembrano ispirati dal Fardello dell’uomo bianco di Kipling, in cui l’occidente ha una missione civilizzatrice e le tragedie altrui sono misurate con il metro delle nostre paure. Appaiono infine ridicole le dichiarazioni di Ettore Sequi, segretario generale del ministero degli Esteri capitanato da Luigi Di Maio, che ha affermato che l’Italia non riconoscerà l’Emirato Islamico. Non possiamo che immaginare gli occhi colmi di terrore per il mancato riconoscimento italiano, da parte di chi ha vissuto vent’anni a combattere tra le montagne

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