Medio Oriente
Iran, Arabia Saudita, Isis, Medio Oriente: l’intervista a Fulvio Scaglione
L’anno solare che ci attende riserva numerose incognite globali che si vanno ad assestare sulle nostre croniche aspettative personali, turbati come siamo da notizie ‘esotiche’ non troppo rassicuranti e impegnati ad assuefare i sensi nello scontro indotto verso cui siamo lanciati, anche a velocità piuttosto elevata. Il 2015 ci ha riservato sapori forti e un po’ stagionati, immergendo le nostre sane visioni da grassottelli occidentali in scenari geopolitici quantomeno preoccupanti, scenari costruitisi e smantellatisi ciclicamente lungo gli anni, scenari ignorati, o meglio accolti in platea come si accolgono le serie televisive, opportunamente divise, archiviate e selezionate a seconda del momento.
A tal proposito nasce la necessità di riassumere ciò che la passione e la scarsa propensione alla sintesi portano a confondere riguardo il periodo di tensione che la comunità antropologica mondiale sta attraversando. Recentemente tra le più disparate analisi che affollano il web e le edicole spiccano quelle del vicedirettore di Famiglia Cristiana Fulvio Scaglione, che si distinguono per un criterio molto netto sulla questione internazionale. Scaglione è stato corrispondente da Mosca e ha seguito per molto tempo le vicende di Afghanistan, Iraq e Medio Oriente in generale, su cui ha scritto due libri (“Bye Bye Baghdad” e “I cristiani e il Medio Oriente”). Abbiamo deciso dunque di andarlo a trovare per chiedergli quali siano gli auspici che il 2016 porta nella borsa e se il vento, considerando i recenti attriti tra Iran e Arabia Saudita, possa addensare nubi ancor più cupe.
Come si aspetta questo 2016 dal punto di vista geopolitico?
«Sicuramente non mi aspetto che questo 2016 sia meno problematico del 2015 e gli esordi lo confermano, anche perché lo scorso è stato un anno seminatore di molte tempeste che prima o poi si dovrà raccogliere.»
Si riferisce alla tensione creata dal terrorismo internazionale e alla delicata questione mediorientale, immagino.
«Mi riferisco alla Siria, alla questione del petrolio, alla tensione tra Arabia Saudita e Iran, al conflitto tra sunniti e sciiti, alla Libia, alla questione dell’immigrazione, insomma sono tutte partite ancora aperte che credo non saranno molto meno drammatiche in questo 2016 rispetto a quanto lo siano state nel 2015. Non dimentichiamo poi l’Ucraina.»
Ucraina che pare sia questione dimenticata e sovrastata dagli eventi. In effetti non c’è da annoiarsi, ma non si può stare certo tranquilli.
«Diciamo che la carne al fuoco è tanta, la brace è alta, dunque il rischio di carbonizzare l’arrosto mi sembra piuttosto elevato tanto quanto lo era un anno fa, se non peggio.»
Le tensioni tra Iran e Arabia Saudita stanno confermando questo rischio.
«La questione tra Arabia Saudita e Iran è una situazione di scontro incancrenita, ma soprattutto mi sembra evidente che il teatro determinato dal patto di ferro tra le potenze occidentali e le monarchie del Golfo stia mostrando la corda e non regga più. La totale e assoluta impunità che l’occidente grantisce in particolar modo all’Arabia Saudita, attribuendole il vessillo dell’Islam moderato è una gigantesca frottola che esiste da decenni, probabilmente dalla nascita dell’Arabia Saudita.»
Il regime di Riyad si è distinto per atrocità eppure si siede al tavolo dei diritti umani con ruolo di spicco. È qui il nodo della questione?
«Siamo di fronte a un regime oscurantista, finanziatore del terrorismo, con un integralismo religioso spaventoso e un’inconsistenza politica desolante. Un vero e proprio stato canaglia alla stessa stregua della Siria all’epoca del bushismo, con la differenza data dal fatto che i sauditi hanno grosse risorse finanziarie a loro disposizione»
La curiosità galoppa, anche perché c’è uno scontro tra due mondi, quello iraniano e saudita, intrisi di religione. Che idea si può avere di questa dicotomia, scendendo maggiormente nel dettaglio?
«Credo innanzitutto ci sia una profonda differenza in senso politico ma soprattutto religioso tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Mentre in Iran c’è una vera è propria teocrazia, l’Arabia Saudita invece è uno stato in cui la religione nella sua forma più retriva, ossia lo wahabbismo, è totalmente al servizio della monarchia. Ora è difficile distinguere quale sistema sia peggio dei due, però come abbiamo visto anche negli ultimi tempi rimane evidente come in Iran all’interno della cornice teocratica sopravviva un minimo di dinamismo politico, per cui siamo passati da un reazionario come Ahmadinejad a un profilo più aperto come quello di Rouhani. In Arabia Saudita questo tipo di dinamismo non esiste, perché il meccanismo impone che la religione giustifichi e faccia da cornice dorata al potere assoluto della dinastia Āl Saʿūd. Abbiamo avuto un esempio proprio in questo caso, col Gran Muftì che si è affrettato a legittimare le 47 condanne a morte.»
Aggiungiamo anche il fatto che la società iraniana ha un livello culturale decisamente più evoluto, in Iran ad esempio le donne hanno diritto di voto dal 1926, in Arabia Saudita l’arretratezza e la disuguaglianza sono diffuse, e le donne non possono neanche guidare automobili. Quanto però di puramente religioso c’è in questo scontro? Si deve aver ragione a pensare a un grande bluff, tanto dalla parte de monarchi sauditi quanto da quella degli ayatollah iraniani?
«Le questioni religiose vengono da sempre usate per questioni di potere, sin da quando il primo profeta sciita Ali ibn Abi Talib fu ucciso nel 661. D’altronde si ha sempre bisogno di una bandiera nobile per giustificare le proprie intenzioni, e tra queste bandiere la religiosa è sicuramente quella più a portata di mano.»
Ci dobbiamo dunque aspettare uno scontro aperto tra i due mondi?
«Io credo che bisogna innanzitutto non prenderci in giro e pensare seriamente all’episodio delle 47 condanne, perché al di là della provocazione saudita al mondo sciita con l’intento non troppo nascosto di generare reazioni inconsulte o belliciste, questo più che un attacco al mondo iraniano è appunto un messaggio confezionato per l’occidente, ed è un messaggio molto chiaro: “voi qui dovete lasciarci mano libera, non illudetevi di poter far la vostra politica anche se avete l’olio di scisto e stipulate accordi sul nucleare con l’Iran”. La loro volontà è soltanto una, restare il primo punto di riferimento occidentale nell’area.»
Certo è che fa specie vedere rappresentanze saudite con ruoli di spicco negli incontri internazionali sui diritti umani…
«Mi spiace molto dirlo, lo assicuro, ma l’Onu è un organismo attualmente totalmente in balìa degli eventi, una specie di barzelletta. Servirebbe una forte personalità e invece Ban Ki Moon sembra totalmente impari alla bisogna, ma d’altronde già la scelta di un ambasciatore sudcoreano, paese satellite statunitense, poteva suggerirci quale sarebbe stata la linea.»
Ecco, tornando al bushismo che lei ha poc’anzi nominato, quante tracce della precedente amministrazione Usa restano nella polveriera mediorientale e nella tensione globale che siamo costretti ad affrontare?
«Dunque, so che molti teorizzano il fatto che Obama si sia disimpegnato dal Medio Oriente, ma io non sono tanto convinto di questa visione delle cose. Mi spiego meglio: Obama ha sicuramente imparato la lezione di Bush e ha voluto a tutti i costi evitare di farsi tornare a casa nuove bare e scongiurare scandali in mondovisione come quello degli abusi nella prigione di Abu Ghraib a Baghdad, però qui stiamo parlando di una questione tattica, non strategica. La sostanza della strategia statunitense nei confronti del Medio Oriente è cambiata di quasi niente rispetto al passato.»
Come è logico che sia se si considerano le varie forze che intervengono nella strutturazione della politica estera statunitense. Quindi lei non vede alcun cambiamento?
«Se guardo l’Afghanistan, ad esempio, vedo una certa continuità. Se guardo i rapporti con i sauditi, anche. Non dimentichiamoci che alla morte del precedente monarca Abdu Allah, grande amico della famiglia Bush, Obama ha portato famiglia e mezzo governo a piangere sulla tomba di questo personaggio che per dieci anni ha finanziato tutti i radicalismi islamici del mondo. Credo che tutto sommato la politica estera statunitense si stia rivelando molto contigua alla visione tracciata dal consigliere di Jimmy Carter Brzezinski nel suo libro La grande scacchiera, ossia quell’antico dividi et impera di Filippo il Macedone sviluppato e riadattato ai tempi. La testimonianza di tutto ciò è data dalla realtà, ossia dal fatto che man mano continua questo tipo di strategia e man mano di pari passo il Medio Oriente si disgrega allontanandosi da quel concetto di grandi nazioni unitarie, dittatoriali certo, ma unitarie, che prima garantivano l’equilibrio nell’area e che ora invece si ritrovano a pezzi o addirittura a pezzetti, se pensiamo al Maghreb e alla Libia in particolare, ma anche alla Siria che si avvia ad essere spartita tra i vari paesi, così come l’Iraq, altro chiaro esempio di grande paese unitario ridotto a un quadripartito condiviso tra curdi, sunniti, sciiti e Isis.»
Adesso però siamo prossimi al cambio della guardia e Hillary Clinton sembra fortemente avviata a una grande corsa verso la Casa Bianca, sostenuta da più parti. Lei che ne pensa?
«Dobbiamo dire che c’è sempre una grossa differenza tra la campagna elettorale -solitamente vendita all’incanto dei sogni e delle illusioni- e la gestione del governo. Penso che l’amministrazione Obama sia la cartina tornasole di questo discorso, se si pensa al fatto che non è riuscita neanche a chiudere Guantanamo. In queste elezioni Hillary Clinton è attualmente la grande favorita, dunque sta facendo campagna elettorale, mostrando un volto più muscolare e parlando all’America profonda. Particolarmente significativo il voltafaccia sulla pena di morte: quando correva per il collegio senatoriale del progressista stato di New York le esecuzioni andavano abolite, adesso invece sembra molto meno convinta.»
Che auspici nutre nei confronti delle elezioni USA del prossimo autunno?
«Prevedere adesso cosa farà il prossimo presidente degli Stati Uniti è piuttosto difficile: anche lì io non mi aspetto delle rivoluzioni, indipendentemente dal fatto che vinca un democratico o un repubblicano. Certo, magari un repubblicano potrà fare una decina di bombardamenti in più, ma non è questo il discorso, è la strategia statunitense in Medio Oriente che deve cambiare dal profondo anche perché penso sia sotto gli occhi di tutti quanto la situazione stia sempre più peggiorando anche grazie alla politica estera di Washington. Se ad esempio la vertenza tra sauditi e iraniani dovesse peggiorare, come si comporteranno gli statunitensi, tradizionali alleati di Riyad ma freschi partner di accordi con Teheran? Quale presidente avrà il coraggio di operare una scelta netta che potrebbe avere conseguenze enormi?»
Si trova d’accordo con il pensiero secondo cui chi riuscirà a domare l’Isis potrà decisamente accelerare il processo di cambiamento geopolitico che il mondo sta affrontando in questi anni?
«Personalmente dubito fortemente che ci sia tutta questa volontà di domare Isis. Per esempio credo che i sauditi non ne abbiano proprio alcuna intenzione, loro hanno cura di non vedersi saltare in aria le moschee a casa loro, ma non hanno alcuna intenzione di intervenire in Siria perché per loro la situazione siriana attuale è quella più favorevole.»
A proposito, recentemente l’Opinion ha diffuso la notizia secondo cui la risposta francese in Siria agli attacchi del 13 novembre si esaurisca in 6 raid giornalieri confrontati con i 52 effettuati in media dai transalpini durante la guerra in Kosovo. Inoltre pare che l’Eliseo concentri gli sforzi in Iraq, più che in Siria. Dunque tutto il dibattito su Raqqah e sul quartier generale dell’Isis da distruggere? Chi se lo ricorda?
«Innanzitutto va detto che a giudicare dalle parole pronunciate da Hollande all’indomani della strage di Parigi, pareva che la Francia fosse intenzionata ad invadere la Siria, non solo a bombardarla. Raqqah è una città, non è un fronte, non ha obiettivi strategici, mal che vada puoi trovarsi qualche sparuto gruppo di miliziani Isis, sempre se ci sono. Nonostante questo le bombe, anche se non tante come quelle annunciate, sono cadute. Son cadute e possono aver fatto vittime collaterali così come quelle dei russi, che invece sembrano farle in continuazione.»
In Iraq invece? Che succede?
«Ormai da più di un anno è chiarissimo cosa succede: la coalizione occidentale e saudita si concentra nel contenere l’avanzata di Isis in Iraq, lasciando al sedicente Stato Islamico invece mano libera in Siria, dove il compito degli uomini di Al Baghdadi è quello di rovesciare Assad e frammentare lo stato siriano. Così facendo si spezzerebbe quell’arco sciita che comprendeva Iran, Iraq, Siria e Libano. L’idea credo sia quella di creare uno stato sunnita che riesca a rompere questa continuità.»
Un altro stato canaglia a volto coperto, per intenderci?
«Esatto, uno stato canaglia che abbia gli stessi crismi dell’Arabia Saudita, visto le impressionanti somiglianze riscontrate tra il sistema ‘giudiziario’ dell’Isis e quello del regime di Riyad, decapitazione compresa.»
C’è una soluzione pratica per contrastare questo scenario?
«Io sono molto affezionato al parere dei cristiani mediorientali proprio perché vivono in quell’area ormai da millenni e sono quelli che hanno le radici culturali più simili alle nostre. Loro dicono che senza i cosiddetti “stivali sul terreno” non si esce dal pantano. Lo dicono tutti, dal signor Rossi al patriarca. Infatti abbiamo visto come per prendere la città irachena di Ramadi, lo scorso 28 dicembre, la coalizione ne abbia dovuti mettere sul terreno circa trentamila paia. Le vicende si sono poi ulteriormente complicate con l’intervento russo. La speranza occidentale che Isis possa rovesciare Assad a Damasco è stata così minata da Putin con bombardamenti a grappolo che vanno a prendere un po’ tutto, Isis ma purtroppo anche altro. Il risultato è dunque un Assad ‘salvato’ dai russi, aggrappato al potere in uno scenario di assoluta confusione.»
Parlando di Russia, Famiglia Cristiana in questi ultimi tempi ha assunto posizione spicco nel resoconto della situazione Medio Oriente, mentre i detrattori la descrivono come un filo russo coniando l’attacco con l’epiteto Famiglia Putiniana. Come sente di rispondere?
«Personalmente sono molto affezionato alla Russia semplicemente perché ci ho vissuto, parlo russo, l’ho iniziato a studiare ai tempi dell’università, quando c’era ancora l’Unione Sovietica e non esistevano facili opportunità per trasferirsi a lavorarci. Putin quindi non c’entra niente, basti pensare com’è stato trattato il ‘democratico’ Eltsin, nonostante fosse benvoluto dall’occidente, ora però ci chiediamo il perché della recrudescenza del nazionalismo russo. La domanda molto diretta che dovremmo farci è: ci piace il Medio Oriente così com’è? Ci piacciono i risultati ottenuti da operazioni come la guerra in Iraq? A me no, dunque il passo successivo è quello di cercare varianti, che sono molto diverse dalle alternative. L’alternativa non esiste, trovo sia ridicolo contrapporre gli Stati Uniti alla Russia. Se si è laici e quindi sprovvisti di alcuna visione fideistica a una corrente credo si debbano riconoscere alcune evidenze.»
Quali, ad esempio?
«Ad esempio è ridicolo che noi ci facciamo mille problemi di democrazia che si addentrano in ogni questione e al contempo andiamo a braccetto dell’Arabia Saudita. Renzi poco tempo fa è andato in visita ufficiale a Riyad tornando entusiasta per accordi vari, la stessa cosa fece il francese Valls, intanto una nazione come l’Arabia Saudita che conta circa 20 milioni di abitanti è al primo posto al mondo per acquisto di armi, tant’è che ci si chiede dove possano metterle, tutte queste armi. Al quarto posto ci sono gli Emirati Arabi Uniti -9 milioni di abitanti. Se non ci interessa la democrazia diciamolo, addiveniamo alla convenzione che tutti gli stati e le potenze hanno degli interessi e non dei sentimenti, hanno degli obiettivi concreti e non degli ideali, e allora tutto diventa più chiaro. Questa finzione per cui noi facciamo cose a fin di bene e gli altri fanno delle cose quando sono cattivi può andar bene fino a che si compiono i 18 anni, poi dopo aver preso la patente bisognerebbe cercare un diverso approccio, altrimenti valgono anche Babbo Natale e Cenerentola. Un altro è quello della proroga delle sanzioni alla Russia emanata con un atto burocratico e senza alcun tipo di concertazione che, al netto di tutte le opinioni che si possano avere sulla Russia, non è un’azione contemplabile. Come se fosse il prezzo delle barbabietole, o un contratto di un telefonino regolato dal silenzio/assenso.»
Riesce a darmi una valutazione dello stato della stampa italiana nei confronti della faccenda?
«Io non credo che la questione sia circoscrivibile ai giornali e alla stampa italiana, al netto di una storica scarsa propensione ad occuparsi di faccende estere. Credo piuttosto stia succedendo ciò che è sempre successo nel corso del cammino umano, ossia il topos secondo cui la storia viene scritta dai vincitori e non solo, viene fatta mandare a memoria ai vinti, è sempre andata così. Io sono cresciuto guardando i film western in cui la Shoah dei nativi americani viene raccontata come il progresso della civiltà: questa è la narrazione dei vincitori, i vincitori ci spiegano il loro punto di vista, e il loro punto di vista diventa unico. D’altra parte i romani erano soliti informare delle proprie battaglie usando e tramandando il proprio resoconto. Pensiamo anche al fatto che la Seconda Guerra Mondiale per come la conosciamo noi in Russia non esiste, esiste invece per loro una Grande Guerra Patriottica, come se l’avessero fatta solo loro. Se poi si vanno a vedere le statistiche si scopre che otto soldati nazisti su dieci sono stati ammazzati dai russi. Con questo non dico di avere alcun orientamento fideistico, l’unica cosa che però rivendico è quella di avere un approccio laico agli avvenimenti evitando salire sulla barca della narrazione che ormai fa acqua da tutte le parti. Perché non si capisce nulla della situazione mediorientale se si è costretti a inseguire favelle come quella dell’esportazione di democrazia o quella dello scontro tra religioni e culture.»
In mezzo a questo teatro che ruolo può giocare l’Italia?
«Prendendola alla lontana, uno dei problemi che credo abbia l’Europa è il successo della Germania. Tutti la accusano di fare i suoi interessi vessando gli altri stati. Al di là di considerazioni più grandi su evidenti disfunzioni in seno al concetto politico di Europa che ha prodotto un’ameba politica incapace di determinare nulla di costruttivo né all’esterno e né al suo interno, il successo dei tedeschi è arrivato anche grazie all’anticipata serie di riforme varate alla fine della cancelleria Schroeder e mantenute da Angela Merkel. Tali riforme, anche dure da digerire, hanno però rilanciato l’economia della Germania rendendola un paese capace di sopperire da solo alle manchevolezze degli altri. Insomma, a forza di veder te crescere e gli altri deperire può capitare che ti sovviene la voglia di fare da solo. In Italia non si sono viste né ripresa e né rilancio, ed è evidente come la situazione di profonda precarietà renda il paese poco forte e poco credibile in sede internazionale, è un processo scontato. Un’altra testimonianza è la crescita diplomatica della Polonia di pari passo con la sua spinta economica, nonostante a me non piaccia quello che sta accadendo lì. Basti pensare che quando Renzi ultimamente ha polemizzato con la Germania per la vicenda del gasdotto del nord e sulle sanzioni alla Russia, aveva ragione. Il problema è che, come diceva Andreotti, non basta aver ragione ma devi trovare qualcuno che te la dà.»
Difficile trovare qualcuno disposto a investire dove non si fattura. Questo mi sta dicendo?
«Dico e ripeto che c’è bisogno di approccio laico. Abbiamo capito che la democrazia non è il punto, come non lo è la religione. Il punto è la politica, dunque bisogna tornare alla politica. Tornare alla politica significa riconoscere che ogni attore in campo si muove secondo interessi propri, ma significa soprattutto abbandonare narrazioni e iniziare ad avere anche interessi propri. Quale può essere il nostro interesse se non quello di voler vedere e vivere un mondo differente da questo, migliore per tutti, qualunque idea ciascuno di noi possa coltivare?»
(Intervista realizzata il 4 gennaio 2016)
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