Questione islamica
Il resoconto fallimentare di 10 mesi di missione contro l’Isis
L’Isis è tornato in primo primo per la conquista di Palmira, città in cui è (o forse era) conservato uno dei siti archeologici più importanti del Medio Oriente. La vittoria militare fa seguito a quella di Ramadi, in Iraq, che per certi versi è ancora più importante sebbene di minore impatto sul piano dell’immagine. In Siria, infatti, i miliziani dell’autoproclamato Califfato combattono contro un esercito indebolito e sfiduciato nei confronti del presidente Bashar al-Assad. Sul fronte iracheno, invece, dovrebbe esserci un esercito addestrato e motivato. Anche se nel caso specifico non è così, perché a Ramadi non c’erano le “truppe speciali” equipaggiate dalla coalizione internazionale.
Un fatto è comunque innegabile: l’Isis sta avanzando. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, in una recente intervista ha cercato di sostenere il contrario:
Non c’è dubbio che ci sia stata una sconfitta tattica, anche se Ramadi è stata vulnerabile da molto tempo, soprattutto perché queste non sono le forze di sicurezza irachene che abbiamo addestrato o rafforzate. Ma non credo che stiamo perdendo.
Con tutta la stima possibile per Obama, questo discorso appare una capriola lessicale per attribuire la sconfitta militare al comando di Baghdad e non ai vertici della missione internazionale. Ma sul piano pratico la giustificazione regge poco: sul campo i soldati iracheni sono, o dovrebbero essere, l’argine all’Isis, indipendentemente da chi li addestra. I guerriglieri jihadisti hanno così conquistato una città importante, capoluogo della provincia di Anbar, e fondamentale nella loro strategia di assumere il pieno controllo tra Siria e Iraq. Al di là degli eccessi mediatici, che si sofferma sugli aspetti ‘spettacolari’ e crudeli, bisogna fare un resoconto concreto della missione avviata da Washington contro l’Isis.
Ad agosto 2014, poco meno di un anno fa, Barack Obama ha dato il via libera alla ‘guerra light’ contro il sedicente Stato islamico, sull’onda dell’emergenza umanitaria riguardante la minoranza degli yazidi. Il piano varato è un mix di bombardamenti dell’aviazione e di sostegno alle forze ritenute ‘affidabili’ sul territorio, come i peshmerga nel Kurdistan iracheno e l’esercito regolare dell’Iraq. In Siria la situazione è molto più complessa con una guerra civile che coinvolge vari gruppi armati, di cui l’Isis è quello più mediatico, e in cui è complicato fidarsi di qualcuno (si rischia di dare armi a sigle che poi possono diventare nemiche, come avvenuto nella prima parte della guerra civile).
Il risultato della missione, dopo 10 mesi, non è quindi positivo, anzi: l’Isis controlla una porzione di territorio sempre più grande, addirittura le ultime notizie parlano di metà Siria sotto il suo comando e la fascia in Iraq che va da Mosul, capoluogo della provincia del Ninive (a nord), fino alla gran parte della provincia di Anbar (la mappa qui sotto aiuta a comprendere meglio la situazione). La notizia va comunque presa con prudenza, in quanto alcuni territori (specie sul campo di battaglia siriano) sono sotto il comando di battaglioni filo-jihadisti ma non propriamente affiliati all’organizzazione comandata da Abu Bakr al-Baghdadi.
Le vittorie riportate dalle forze anti-Isis sono poche e per lo più simboliche: è stato respinto l’assalto a Kobane, al confine con la Turchia, grazie alla resistenza dei curdi, ed è stata ripresa Tikrit, al termine di un efficace assedio. Per il resto poco altro da segnalare. Certo, ci sono poi state le operazioni mirate verso i vari leader, sia religiosi che militari, dell’Isis. Ma le uccisioni mirate non hanno indebolito la forza militare di un’organizzazione, che conosce molto bene le tecniche di guerra e sul campo riesce a essere indipendente dai comandanti posti al vertice. A cominciare dal Califfo.
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