Questione islamica
Il radicalismo europeo non è nuovo e Milano l’ha già conosciuto
Anwar Shaban. A molti questo nome non dirà nulla. È stato, però, il primo esempio di radicalismo in Italia, dove ha vissuto e operato tra il 1989 e il 1995.
Dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre, l’Europa si chiede da dove derivi tutto questo odio, da dove nasca il radicalismo in ragazzi nati e cresciuti in Europa. Lo stesso era stato fatto dopo Charlie Hebdo, lo scorso gennaio. Sui giornali si è sentito tutto e il contrario di tutto. Le opinioni, i commenti e le analisi si sono sprecati, creando un magma di confusione. Pochi però hanno detto che il radicalismo in Europa ha radici che risalgono agli anni 70’ del secolo scorso. E Milano lo ha già sperimentato sulla propria pelle. Una storia che non conosciamo e dovremmo sapere.
Ritorniamo ad Anwar Shaban. Sceicco egiziano appartenente al gruppo islamista Jamaat al-Islamya (membro della lotta contro il regime militare egiziano), arriva in Italia nel 1989, poiché impossibilitato a fare politica sotto il regime di Mubarak. Si stabilisce a Milano, dove comincia a predicare nel centro culturale di Viale Jenner attorno a cui la comunità islamica si sta formando.
Le sue predicazioni diventano radicali a seguito dello scoppio della guerra dei Balcani. La maggioranza dei musulmani di Viale Jenner cerca di allontanarlo dal centro. Tuttavia, si crea una spaccatura rilevante, poiché Shaban, facendo affidamento sulle sue qualità oratorie, riesce ad attrarre decine di sostenitori, che cominciano a seguirlo con grande rispetto.
Shaban è una persona colta. Conosce molto bene il Corano e parla la sua lingua classica. Predica in un ambiente in cui la maggior parte dei musulmani sono nord-Africani e non conoscono molto bene la lingua classica. Basta questo a garantirgli un’aura di rispetto e autorevolezza.
La propaganda di Shaban non è contro l’Italia o contro l’Europa. L’Europa non è ancora vista come un nemico da combattere. Il suo compito è quello di mobilitare il maggior numero di musulmani a difesa dei bosniaci perseguitati da Milosevic. Fonti dell’intelligence italiano riferiscono che il pubblico che più ammira Shaban sono giovani di alta educazione, come uno studente siriano di medicina a Milano che, spinto dalle parole di Shaban e dalle stragi di musulmani in Bosnia, prende parte alla guerra. Sono i primi giovani che cominciano a provare empatia verso le comunità musulmane perseguitate nel mondo.
Ma ad arruolarsi sono soprattutto ragazzi tunisini e marocchini con lavori precari. Molti di loro lasciano la realtà del nord-Italia per combattere in Bosnia. Alcuni, come Karray Kamel, rimangono lì dopo la guerra. Altri, come Houssaine Kherchtou, finiscono per rinnegare il Jihadismo e collaborano con la Cia.
Shaban dimostra di avere molto denaro – probabilmente derivante dalle monarchie del Golfo – e documenti falsi che gli consentono di muoversi liberamente nel suolo italiano. La polizia svizzera riferisce che Shaban ha un conto in una banca di Lugano. Si scopre essere lui uno dei punti di riferimento del “Battaglione dei Mujahidin” che opera in Bosnia. Inoltre, dimostra di avere contatti con Ayman al-Zawahiri, mente egiziana di al-Qaeda.
A causa della sua radicalizzazione, il centro di viale Jenner cerca di emarginarlo sempre di più. La Cia riferisce che Shaban abbia aperto un campo di addestramento a 50 km da Milano, per preparare i ragazzi alla Jihad nei Balcani. Per la polizia italiana è troppo. Nel 1995 Shaban riesce a scappare in Bosnia dopo un tentativo di cattura fallito all’aereoporto di Fiumicino, dove morirà in battaglia nel dicembre dello stesso anno.
La sua storia è simile a quella di molti altri imam o attivisti islamisti che hanno operato in Europa. Basti pensare ad Abu Musab al-Suri, membro della Fratellanza musulmana in Siria, che operò in Spagna e Gran Bretagna negli anni 80. Le sue predicazioni hanno fortemente influenzato l’ideologia di Al-Qaeda. Bakri Mohamed, invece, era un predicatore dell’Islam violento e radicale, che visse e lavorò Londra fino agli anni 80’, ma venne espulso nel 2005 a causa delle sue invettive anti-occidentali dopo l’11 settembre.
Il radicalismo in Europa non è nato qualche anno fa. Recentemente ha conosciuto un’espansione considerevole, ma le cause sono ancora oggetti di studio. Si sente parlare di crisi socio-economica, problemi d’integrazione, crescita della propaganda jihadista grazie ai mezzi d’informazione Web. Tutte queste probabilmente contribuiscono, ma il fenomeno è ancora oggetto di ricerca.
Le sue radici sono più profonde, e non riguardano, inizialmente, un odio europeo o verso la sua civiltà. La lotta è per l’affermazione dei partiti islamisti nei paesi storicamente musulmani.
Molti predicatori europei hanno vissuto le carceri di Nasser in Egitto, Gheddafi in Libia o Assad in Siria, dove si sono radicalizzati e hanno organizzato la loro lotta armata contro i regimi. Il fine era la lotta e il rovesciamento delle dittature medio-orientali.
Perché sono arrivati in Europa? Perché le democrazie europee fornivano un grado di libertà di opinione e di organizzazione politica che non aveva pari nei regimi medio-orientali e nord-africani. Nei paesi europei a partire dagli anni 70, giovani islamisti hanno cominciato ad organizzare la propria attività politica, ramificandosi, aprendo uffici e disponendo di denaro contante. Siete curiosi di sapere da dove arrivi questo denaro?
Dal 1979, anno della rivoluzione shiita in Iran, l’Arabia Saudita ha voluto rinvigorire il suo sunnismo wahabita e dare impulso ad un nuovo revivalismo islamico, elargendo enormi quantità di denaro per aprire uffici e organizzazioni islamiste in Europa e in tutto il mondo.
Ma non solo. La maggior parte delle organizzazioni islamiste operanti all’estero riceveva soldi dagli stessi regimi che combattevano. Il patto era che però rimanessero fuori dal paese e non creassero instabilità interna. Attraverso la Islamic Call Society, ad esempio, il colonnello Gheddafi elargì ingenti somme di denaro ai gruppi islamisti stanziati in Europa, salvo poi considerarli eretici e terroristi nei suoi discorsi pubblici.
Per non cadere nel rischio di generalizzazione, occorre ribadire che parliamo comunque di realtà molto limitate, nella maggior parte dei casi emarginate dalla maggioranza delle comunità musulmane europee che non si sono mai riconosciute nella lotta islamista.
Ma la storia del radicalismo europeo non possiamo più ignorarla. Dobbiamo fare uno sforzo per comprenderla e conoscerla, per capire che cosa effettivamente possiamo fare per eliminarlo. Eliminare i terroristi non porterà ad eliminare il terrorismo.
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