Questione islamica
I progressisti laici e la «rivincita di Dio»
La tragicità degli eventi di Parigi (che hanno colpito indirettamente anche la città in cui vivo e per fortuna soltanto sfiorato le vite dei miei amici) e la pesantezza del dibattito pubblico che ne è seguito mi hanno finora trattenuto dall’esplicitare alcuni pensieri che, ne sono certo, verranno fraintesi da molti.
Una premessa necessaria: la strategia di Daesh è “diabolica” nel senso etimologico del termine: mira a dividere. La divisione perseguita è innanzitutto quella tra le varie componenti delle società multiculturali, e la tragedia che dobbiamo assolutamente scongiurare è l’isolamento anche solo apparente – cioè mediatizzato – delle comunità islamiche. Ma se l’idea che il fondamentalismo omicida sia connaturato all’Islam in sé è un’enorme stupidaggine, è una stupidaggine altrettanto grossa dire che l’islam o la religione «non c’entrano nulla» con i morti di Parigi.
Mentirei se negassi il fastidio profondo che provo di fronte alle autocensure, al benaltrismo e ai distinguo di vario tipo sentiti questi giorni, di fronte alla contraddizione di tanti tra noi che ci definiamo progressisti, che pretendiamo da una parte di difendere la laicità dello Stato (laicità fragilissima, perché Roma non è Parigi) prendendocela con nullità reazionarie come Adinolfi e dall’altra gridiamo all’islamofobia se solo qualcuno associa il terrorismo ad un’interpretazione della fede musulmana. E, prima ancora che i cadaveri si raffreddino, il pensiero di tanti non va alle vittime, ma allo sciacallaggio di Salvini. Onestamente a me questo non sembra accettabile, seppur comprensibile.
Certamente comprensibile, se guardiamo al nostro orientalismo piccolo borghese, fatto di kebab, viaggi in Marocco e compilation di Fairuz. Il progressista pigro guarda al mondo arabo-islamico, della cui storia non conosce granché, soprattutto come a un serbatoio di consumi culturali. E dei conflitti di quel mondo conosce soltanto quelli che può attribuire alle potenze occidentali, riducendo così un’intera civiltà ad uno specchio in cui vedere riflesse le proprie nefandezze.
Oltre ad una certa misura di odio di sé, in questo atteggiamento c’è il disprezzo per l’altro che si cela nel paternalismo terzomondista, quello per cui i popoli arabi sono in buona sostanza bambini alla mercé di orchi cattivi. Secondo questa visione, al di fuori dell’occidente non esistono volontà, pratiche e condizioni materiali che non siano indotte dall’influenza coloniale o neocoloniale dell’occidente stesso. Il fondamentalismo? Una creazione della CIA in chiave antisovietica. Le dittature arabe? I cani da guardia dei nostri interessi petroliferi. Il terrorismo jihadista? La risposta alle bombe occidentali (e, naturalmente, alla politica di Israele, capro buono per tutte le espiazioni).
Questi sono tic che conosciamo bene, ma a mio avviso di fronte alla superficialità di tanti commenti nell’area del “ceto medio riflessivo” c’è dell’altro. Se da una parte il terzomondismo più o meno peloso ci spinge a considerare il Mondo Arabo non un attore, ma una marionetta, dall’altra il rifiuto del fatto religioso ci impedisce di capire cosa spinga un giovane non più povero, non più sfruttato, non più frustrato di tanti altri a farsi saltare in aria in nome di Dio.
Su questo punto purtroppo non trovo riscontro nelle cerchie che abitualmente frequento, composte prevalentemente da laici – ossia da atei – refrattari per formazione a comprendere il fatto religioso e il peso concreto che la dimensione simbolica ha su quella sociale, incapaci di elaborare la “Revanche de Dieu” di questi ultimi decenni, per citare Gilles Kepel. In queste cerchie prevale un Marx da Casa del Popolo, in cui i fenomeni non strettamente economici vengono liquidati come residui premoderni e come pezzi di “sovrastruttura” – eppure il concetto di autonomia del Politico è già servito a spiegare il nostro terrorismo.
In controtendenza, tra le poche riflessioni davvero interessanti che ho letto in questi giorni ci sono il bell’articolo di Marco Belpoliti su Doppiozero e l’intervista a René Girard riportata da Alfio Squillaci qui sugli Stati, ma mi pare si tratti di eccezioni. Viviamo in un’epoca complicata. Qualunque sia il proprio atteggiamento di fronte alla religione, non credo abbia senso ripetere (religiosamente…) i mantra sull’integrazione contrapposta alla guerra se non si mette da parte il proprio senso di superiorità rispetto ai credenti di qualsiasi confessione. Perché se il dialogo interculturale fallisce con il cattolico praticante della porta accanto, scordatevi che possa avere successo con l’Islam.
(foto di copertina: https://www.flickr.com/photos/menj)
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