Questione islamica
Femminismo e omosessualità, tra comunitarismo religioso e diritti individuali
Tra le fila di una certa sinistra regressiva (definizione egregia di Maajid Nawaz), a partire degli anni ’90 si consolida lentamente l’idea che alcune tra le battaglie per i diritti dell’uomo combattute nei paesi del Nord Africa o nel più lontano Medio Oriente (come per esempio quella di emancipazione femminile e rivendicate dalle minoranze sessuali) debbano assumere un profilo ontologicamente differente da quello laico e secolare con cui sono state perseguite in ‘Occidente‘.
Per i malati di orientalismo post-coloniale divorati da un terminale senso di colpa derivato dall’aspetto latteo della propria pelle, conciliare le avanguardie dei diritti civili con le retroguardie dei privilegi delle comunità religiose è l’unica strada che immaginano aperta per tutti quei milioni di donne, apostati, atei e omosessuali che, sfortunati loro, si son ritrovati ad avere i propri natali nelle teocrazie islamiche; un percorso lento fatto di ‘modestia’ e di tanta pazienza ma necessario ed imprescindibile per promuovere i diritti delle minoranze all’interno di una comunità religiosa che, quelle minoranze, le ha sempre storicamente represse o perseguitate; una missione che suona più come una condanna a morte che come un sincero auspicio di riuscita e successo, ma tant’é…
Ecco allora emergere manifesti e statuti che combinano in salsa postmoderna le giuste rivendicazioni di libertà personali con una più incomprensible e reazionaria promozione della pratica religiosa comunitaria, responsabile principale della negazione di tali libertà: l’attivismo LGBTQ+ in chiave esplicitamente musulmana ne incarna un magnifico esempio.
Il MASGD (Muslim Alliance for Sexual and Gender Diversity) è un’associazione fondata ad Atlanta (U.S.) nel 2013 che all’interno del suo statuto si pone due intenti precisi: 1) favorire l’accettazione delle minoranze sessuali all’interno della comunità musulmana; 2) incoraggiare una comprensione ‘progressiva’ dell’Islam come religione di inclusione, giustizia ed uguaglianza.
A fare eco a questi obiettivi vi è Al Fatiha, un’altra organizzazione internazionale fondata nel 1997 dall’attivista queer di origini pakistane Faisal Alam, che tra le sue finalità ha anche quella di ‘promuovere la spiritualità tra i Musulmani LGBTQ.’
In contrasto con la configurazione radicalmente laica del femminismo arabo di inizio ‘900 che, tra le varie, rivendicava un rifiuto totale del velo come conditio sine qua non per il superamento del controllo sociale sul corpo delle donne da parte del patriarcato dominante, le battaglie femministe degli ultimi tre decenni sembrano (e sottolineo ‘sembrano’) essere condotte solo da ‘guerriere’ con l’hijab in testa; un femminismo conservatore che si auto definisce fieramente ‘islamico’ o ‘musulmano’ che, emerso agli inizi degli anni ’90 in Iran, si diffonde presto nell’Africa del Sud, in Egitto, Turchia e più recentemente anche in Occidente a causa delle crescenti ondate migratorie, fino al punto di diventare agli occhi dei più l’unico e il solo attivismo femminista immaginabile per delle donne arabe o turche (grazie anche all’immagine storpiata che ne danno influenti mezzi di comunicazione di massa); al cuore della loro missione a metà strada tra progressismo laico e conservatorismo religioso, vi è una sfida esegetica da vincere prima ancora che sociale: promuovere una nuova interpretazione (in arabo ijtihad) del Corano e della Sunna che permetta alle donne musulmane di emanciparsi da quella visione patriarcale (secondo loro) erronea con cui la umma maschilista dominante ha interpretato i testi sacri nel corso dei secoli, deformando la visione e l’autentica voce del profeta.
In ragione di questa missione esegetica, una serie infinita e surreale di acrobazie retoriche si dipana di fronte a noi, tutte esibite con l’intento di sedurci e convincerci di quanto “all’avanguardia” e moderno fosse il pensiero dei beduini a cavallo (o per meglio dire ‘a cammello’) tra VI e VII secolo d.C.
Ironia a parte, le riletture dei testi sacri che assecondino una visione critico-storicistica a discapito di una tradizione fondamentalista che li voglia interpretare “alla lettera”, sono sicuramente un segno di progresso e con fiducia devono essere accolte. Tuttavia, se è solo sul terreno interpretativo (seppur in chiave riformista) a giocarsi la battaglia per i diritti civili, il rischio concreto che questi giocatori musulmani modernisti corrono è che le loro ‘interpretazioni’ possano a loro volta essere soggetto di una continua rilettura, e non sempre questo avviene in chiave ‘progressista’, come la storia più volte ci ha dimostrato.
Prendiamo per esempio ciò che viene scritto sull’omosessualità: se da un lato è vero che non vi è un’esplicita condanna di tale ‘pratica’ nel Corano, basterà infilarci velocemente tra le pieghe degli Hadith (i racconti sulla vita del profeta che costituisce, dopo il Corano, la seconda fonte della legge islamica) per leggere, tra i vari, i seguenti versi:
“Il Profeta disse: Se trovi qualcuno che fa come la gente di Lot, uccidi colui che lo fa e colui a cui è fatto.” (Sunan Ibn Majah Book 20 Hadith 2561)
“Se un uomo che non è sposato viene trovato commetterre sodomia, sarà lapidato a morte” (Sunan Abu Dawood, 38:4448)
Al contrario, rifugiarsi nella magnificazione delle radici giudaico-cristiane alla base dei diritti degli omosessuali, rispolverando i testi dell’antico testamento o della Torah, non ci farà dormire sonni più tranquilli… ma forse è proprio questo il punto.
Nessuna religione abramitica può assurgere a modello di emancipazione dei diritti civili per così come li abbiamo concepiti dal secolo dei Lumi in poi; la promozione dei diritti dell’uomo trova la propria ragione d’essere solo a prescindere e in opposizione ai contesti politico-religiosi di partenza. E’ sul terreno neutrale a-religioso ed a-politico che le più grandi vittorie sul piano dei diritti umani si sono vinte con successo: questo luogo è un non-luogo, un piano ideale di azione politica che non appartiene intrinsecamente né all’Occidente né all’Oriente e che va di giorno in giorno riconquistato da una militanza che non ha un colore specifico: questo spazio si chiama ‘laicità’.
Seppur nato col nobile intento di proteggere dalle visioni più estreme quei musulmani che essendo omosessuali, lesbiche o trans cercano con difficoltà di conciliare la propria fede col proprio orientamento sessuale, un’associazionismo LGBTQ+ che si faccia carico anche di difendere la ‘spiritualità’ e lo spirito ‘comunitario religioso’ dei suoi associati, rischia di non avere quella propulsione critica necessaria alla messa in discussione dei valori più tradizionalisti e conservatori che sono e sempre saranno il fulcro imprescindibile di tutte le religioni monoteiste.
Pure alle auto-proclamate femministe ‘islamiche’, la difesa della religione e della propria comunità può delle volte sfuggire di mano ed inficiare profondamente la loro stessa battaglia per i diritti delle donne: come leggere altrimenti le parole di Linda Sarsour, una delle femministe americane di origini palestinesi più note al grande pubblico per le sue controverse posizioni in ambito religioso e politico, quando dichiara che “l’oppressione delle donne è assolutamente estraneo alla fede islamica”? Forse che questa affermazione sia figlia di una mancanta consapevolezza da parte di un’attivista che, seppur di origini Palestinesi, non ha mai lasciato il suolo liberal-democratico Americano per più di qualche settimana? Forse che la denuncia dell’islamofobia (termine con il quale si vorrebbe stanare un potenziale razzismo nei confronti della comunità musulmana ma che, di fatto, censura e rende impossibile qualsiasi critica alla dottrina e alla religione stessa) sia prioritaria rispetto alla condanna del patriarcato perpetrato nei secoli dai membri appartenenti a quella stessa comunità di cui lei si fa portavoce?
E ancora, quando Sarsour accusa Ayaan Hirsi Ali, altra attivista americana di origini somale ed autrice di Infidel: My Life (2006/7), nata in Somalia ma cresciuta in Arabia Saudita e Etiopia e poi scappata in Olanda per sfuggire ad un matrimonio religioso combinato, di essere una “fake feminist“, quale causa sta difendendo? Quella femminista o quella religiosa?
Per una femminista ‘islamica’ à la Sarsour, sono più inaccettabili le critiche mosse nei confronti dell’Islam (seppur sul mero piano politico in quanto ideologia reazionaria e teocratica così come incarnata per esempio dal Wahabbismo salafita in Arabia Saudia o in Qatar) perché potenzialmente offensive nei confronti delle sensibilità religiose o le continue minaccie di morte che la sua collega femminista Ayaan Hirsi Ali riceve da membri della comunità musulmana stessa in virtù del suo pensiero libero e critico? Una possibile risposta a questo dilemma l’abbiamo ricevuta da quel pacifista di papa Bergoglio, il giorno dopo gli attentati a Charlie Hebdo: “se critichi la mamma, non ti aspettare che non ti arrivi un cazzotto in faccia!”
Le fatāwā lanciate in nome di Allah contro scrittori ed intellettuali accusati di blasfemia per aver caricaturato o criticato il profeta sono conciliabili o meno con una moderna lotta femminista che voglia integrare anche la libertà di espressione tra i suoi principi fondanti?
La contaminazione barbara tra rivendicazioni comunitaristiche-religiose e la difesa di diritti civili degli individui rischia di creare un conflitto perenne tra le due istanze e alla lunga di sabotare il secondo progetto in favore del primo.
Ecco perché l’unico spazio concreto di rivendicazione di libertà fondamentali quali quelle di espressione e dei diritti civili che sia efficace e che abbia la forza di far cadere vecchi preconcetti e (persino) nuove dittature risulta essere uno spazio che possa prescinda dal contesto geo-politico e religioso; questo spazio di ‘laicità’ è percorribile anche da tutte quelle donne e omosessuali di fede musulmana e non è un lusso concesso solo ai liberal-democratici occidentali, come una certa visione post-marxista fortemente reazionaria tende a farci credere.
Leïla Tauil, autrice di Féminismes arabes : un siècle de combat. Les cas du Maroc et de la Tunisie (Femminismi arabi: un secolo di lotte. I casi del Marocco e della Tunisia) edito per Harmattan (2018) conclude così una sua recente intervista rilasciata per la rivista Le Monde Arabe:
“In un contesto socio-politico segnato sin dagli anni ’80 dal paradigma islamista e dal ritorno di politiche reazionarie, sono totalmente d’accordo con la posizione delle femministe laiche tunisine e marocchine, Sana Ben Achour e Ibtissam Betty Lachkar, secondo le quali è necessario emancipare le richieste dei diritti delle donne dalla questione di “identità arabo-musulmana”, che assegna alle donne uno status giuridico inferiore, nell’ambito dei diritti umani, della cittadinanza e delle libertà pubbliche (Ben Achour). In altre parole, è intollerabile giustificare ancora oggi una disuguaglianza di genere in nome della cultura o della religione di partenza. Perché, infine, “i diritti umani e i diritti delle donne sono universali. (…) e non possono essere vincolati a questioni religiose, confini nazionali o colore della pelle “(I. B. Lachkar).”
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