Mediterraneo

Islam politico, economia in salute, riforme: ecco la ricetta marocchina

22 Settembre 2015

Il 4 settembre scorso, i cittadini del regno del Marocco si sono recati alle urne per le elezioni amministrative, le prime dopo la riforma costituzionale del 2011 che ha aperto a una decentralizzazione del potere. Il risultato ha premiato il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Pjd), che governa dalle elezioni del 2011 con il primo ministro Abdellilah Benkirane.

Il Pjd, su scala nazionale, è risultato il partito più votato, con il 25,6 % dei voti. E ha vinto nelle città chiave del Paese: Rabat, Casablanca, Tangeri, Agadir, Marrakesh, Fes. I principali rivali, i nazionalisti di Istiqlal e i liberali del  Partito dell’Autenticità e della Modernità (Pam), pur recuperando in alcune delle dodici regioni individuate dalla riforma, restano indietro a livello nazionale.

Fin qui sembrerebbe tutto normale, anche se sono pochi gli esecutivi in carica da quattro anni che passerebbero in carrozza una tornata elettorale. La situazione in Marocco, però, è molto più interessante del dato elettorale. Perché, secondo le semplificazioni tipiche con le quali la stampa europea guarda a certi paesi, il Pjd è un partito islamista. E il premier Benkirane, per capirci, ha scontato anni in carcere in passato per la sua militanza.

Questa polaroid, infatti, racconta una storia particolare. Nel 2011 il Nord Africa e il Medio Oriente, comprese alcune impensabili nel Golfo Persico, esplodevano. Dalla Tunisia all’Oman, centinaia di migliaia di giovani arabi hanno provato ad alzare la testa. Le teorie del complotto si sprecano, le infiltrazioni di quei movimenti pure, ma resta che tanti, davvero tanti, hanno creduto di poter cambiare la loro sorte. E il Marocco non è stato da meno.

Le prime manifestazioni si registrano il 20 febbraio 2011, a Rabat e a Casablanca. Il giorno darà il nome a un ‘movimento’, in realtà molto eterogeneo. Confluiscono in piazza, come altrove, le istanze più differenti: l’Islam politico (avversato e perseguitato da anni, dal padre dell’attuale sovrano Mohammed VI prima e da lui dopo), la sinistra, sindacati, studenti, intellettuali. Chiedevano progetti concreti di sviluppo e redistribuzione della ricchezza, libertà, rispetto. Un futuro che fosse qualcosa di più tra corrompere qualcuno per avere un lavoro o emigrare.

Per nulla differenti dalle istanze che animavano le piazze altrove. Solo che ognuna di quelle piazze ha preso una sua strada, dai massacri in Libia e Siria fino alla repressione brutale e gattopardo egiziano, o all’incertezza tunisina. Anche in Marocco si contano sei vittime, ma Mohammed VI decide di non giocare la carta della polizia e dell’esercito che spara sulla folla. Apre un tavolo negoziale, promette una riforma costituzionale e, cosa più unica che rara, mantiene la promessa.

Il paese si reca alle urne a luglio del 2011. Il referendum approva la riforma costituzionale, da quel giorno il re è tenuto a indicare come primo ministro il leader del partito di maggioranza relativa. A novembre dello stesso anno si vota e vince il Pjd, che presenta come candidato premier Benkirane. Altrove, vedi l’Egitto, o l’Algeria degli anni Novanta, sarebbe impensabile. E invece il Marocco inizia una nuova era.

I parametri economici sono, per certi versi, una lente più o meno neutra per ragionare. La disoccupazione scende fino a meno del 10 %, che per il Marocco del passato è un numero impressionante, il deficit pubblico viene portato a meno del 5 % del Pil, nel 2014 il turismo (attirato dalla stabilità del Paese) offre numeri da record: più di 10 milioni di persone visitano il Paese, per un giro d’affari di 5,3 miliardi di euro.

Gli investitori stranieri, attirati dal basso costo del lavoro, si moltiplicano nel settore del tessile, delle infrastrutture, dell’agricoltura, dell’allevamento, della pesca. Il Marocco è l’unico produttore mondiale dell’olio di argan. Con i suoi 17 porti il Marocco è tra i maggiori paesi nella attività ittica.

E le risorse naturali. Il Marocco è un paese povero di petrolio e di gas naturale, che importa, ma risulta ricco di fosfati, di cui è il terzo produttore mondiale (dopo Cina e Stati Uniti), ma ampiamente al primo posto per le riserve (detiene circa il 70% delle riserve mondiali conosciute), di cui è il principale esportatore mondiale. Oltre a miniere di cobalto, di piombo, di zinco , di argento, di manganese, di ferro, di rame, di carbone, di oro e di antimonio. Negli ultimi decenni si è sviluppata l’industria anche nei settori chimico, petrolchimico, elettronico e automobilistico (Laraki, Renault, Nissan), informatico e navale.

Il re del Marocco Mohammed VI

Rispetto all’Italia, secondo una elaborazione della Camera di Commercio di Milano, nei primi sei mesi del 2015 le relazioni economiche con il Marocco hanno superato 1,1 miliardo di euro, con un segno positivo dell’1,5 per cento rispetto all’anno precedente. L’export pesa sulla bilancia monetaria 706 milioni, l’import sfiora i 425. Il 90 per cento dell’interscambio, pari a oltre 1 miliardo, è rappresentato da beni manifatturieri, in particolare l’Italia esporta macchinari per 145 milioni, moda per 84, articoli in gomma e materie plastiche per 76 milioni. Quanto all’import, invece, dal Marocco arrivano in Italia mezzi di trasporto (118 milioni) e prodotti alimentari (114 milioni).

Uno sviluppo economico che ha portato a una netta inversione di tendenza dei parametri delle migrazioni. Il Marocco, da paese di emigrazione (le comunità marocchine in Europa, per decenni, sono state tra le più numerose) è oggi avviato a diventare un paese d’immigrazione, per africani subsahariani e anche per spagnoli in fuga dalla crisi.

Un mondo perfetto? Per niente. Gran parte dei risultati vincenti in economia, almeno nel settore ittico e dei minerali naturali, sono dati dall’occupazione del Sahara Occidentale, avvenuta nel 1976. Il territorio a sud del Marocco, ex colonia spagnola, è stato ‘venduto’ al Marocco dall’agonizzante regime iberico di Francisco Franco. Le truppe marocchine lo hanno occupato, costruendo tra le terre occupate (quelle più ricche e pescose) e le terre liberate dai miliziani saharawi un muro secondo solo alla muraglia cinese.

Le violazioni dei diritti umani del popolo saharawi, che attende dall’Onu e dal mondo un referendum per la sua indipendenza dal 1976, sono all’ordine del giorno e gran parte della popolazione vive ancora nei campi profughi del deserto algerino. La libertà di stampa non gode di maggior salute: basta conoscere la parabola umana e professionale del giornalista Alì Lmberet per saperlo.

C’è molto da lavorare e, proprio perché partner commerciale, il governo marocchino andrebbe tenuto sotto pressione per la soluzione della questione del Sahara Occidentale e delle libertà civili nel Paese. Però bisogna riconoscere che dagli attentati che nel 2003 devastarono il Marocco, molta strada è stata fatta.

La stessa riforma, con il progetto di decentralizzazione, potrebbe essere un passo in questo senso.
Un piano che  punta alla compiuta realizzazione di un modello di stato composto da 12 regioni che sono state individuate storicamente tenendo conto della geografia delle antiche tribù prima della colonizzazione e in maniera tale da valorizzare l’identità e la specificità socioculturale ed economica di ciascuna. Opportunità uguali per tutti, almeno sulla carta, e distribuzione delle risorse in maniera tale da evitare sperequazioni.

Perché dal Marocco, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, per una volta (visto che sempre si pensa di poter insegnare) arriva all’Europa e agli Usa una lezione importante: con l’Islam politico bisogna parlare, confrontarsi, rispettarne il peso popolare. E’ una galassia complessa, in Marocco ad esempio esistono anche l’Associazione della Giustizia e della Beneficienza, fondata da Abdessalam Yassin e oggi guidata da Mohammed Abbadi, il Movimento per la Nazione, guidato da Mohamed al-Marouani, il movimento Alci (Alternativa Cittadina). Inoltre dal 2011 ci sono anche i salafiti, che hanno un partito marginale che si chiama Partito Rinascita e Virtù. Bisogna capire che è una parte di mondo che non può essere ignorata e come tutte le comunità esprime voci del dialogo e voci radicali. E’ tempo di saperle distinguere.

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