Questione islamica

Da Copenaghen a Modena, lo spettro dell’Islamofobia si aggira per l’Europa

21 Maggio 2015

COPENAGHEN – Che la Danimarca stia diventando sempre più multietnica, lo si capisce dalle coppiette avvistabili lungo lo Strøget, il vialone pedonale di Copenaghen consacrato a shopping e passeggio: ragazzine bionde, truccatissime, chiaramente danesi, abbracciate a ragazzi dalla pelle più scura, vestiti come i rapper di un video di MTV. Difficile trovare qualcosa di male in questi amori adolescenziali. C’è però chi storce il naso. «È uno schifo. – dice senza tanti giri di parole a Gli Stati Generali Lars (il nome è di fantasia), che lavora in un pub del centro – Le ragazze danesi escono con i musulmani, ma se una ragazza musulmana osa uscire con un danese la famiglia poi la ammazza». Lars, che ha superato la trentina e nel tempo libero fa body-building, è contro il «mescolamento delle razze»; si definisce «un conservatore cristiano», ed è molto preoccupato per il futuro del suo paese: «se continua così la Danimarca diventerà una colonia dell’Isis». Birgitte ha 18 anni compiuti da poco, e sogna di diventare una maestra elementare.

Qualche anno fa usciva con un coetaneo turco, e a Gli Stati Generali racconta: «Se una ragazza danese vuole far arrabbiare i genitori, basta che si metta con un musulmano. Perché anche i più progressisti genitori di Hellerup [ricco sobborgo di Copenaghen] in realtà non sopportano l’idea che la propria figlia si scopi un somalo o un palestinese». Insomma, benvenuti nella Danimarca del XXI secolo: ricca, progredita, con un reddito medio pro capite di quasi 60mila euro. Ma che deve fare i conti con un problema che, in realtà, riguarda tutta l’Europa occidentale: la mancata integrazione di una parte dei suoi giovani di fede musulmana e origine straniera. Una bancarotta sociale e culturale potenzialmente devastante. I primi segnali già ci sono. Gli attacchi alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo e al supermercato kosher di Parigi sono stati compiuti da tre giovani francesi di fede islamica e origini africane. Ancora, autore delle due sparatorie che il 14 e 15 febbraio hanno insanguinato Copenaghen è stato un danese musulmano con genitori arabi: il ventiduenne Omar Abdel Hamid El Hussein, poi ucciso dalla polizia. Cresciuto nel distretto multietnico di Nørrebro (dove circa il 21% della popolazione è straniera o di ascendenze straniere), El Hussein è stato descritto dai media danesi come un ragazzo intelligente, dalla lingua tagliente, sempre pronto a scagliarsi contro Israele e le sue azioni contro il popolo palestinese. Un ragazzo che aveva smarrito la strada: niente diploma di maturità, una carriera da delinquentello, poi l’arresto per aver accoltellato un ragazzo in metropolitana, il carcere e infine l’adesione all’islamismo radicale.

«A mio parere El Hussein era un ragazzo inquieto nato in Danimarca e cresciuto nella cultura violenta delle gang del complesso abitativo popolare di Mjølnerparken. – dice a Gli Stati Generali Brian Arly Jacobsen, sociologo delle religioni presso l’università di Copenaghen – Ed è stata proprio una gang che alla fine lo ha respinto per il suo comportamento imprevedibile, prima che lui trovasse una nuova identità nel radicalismo islamista». Come hanno sottolineato gli stessi familiari di El Hussein, il ragazzo non era mai stato un musulmano osservante. È stata la prigione a cambiarlo. In peggio. Naturalmente El Hussein non è l’unico giovane danese a subire il fascino dell’Islam più intransigente. Secondo un rapporto del servizio di intelligence interna danese PET, in Siria opererebbero circa 1.500 combattenti stranieri europei, e quelli dalla Danimarca supererebbero le 100 unità. “Si tratta principalmente di giovani maschi sunniti di origini etniche diverse. Anche dei danesi convertiti sono partiti per la Siria. – rileva il rapporto – Gran parte di essi sono legati a circoli islamisti in città come Copenaghen, Aarhus e Odense. Altri sono invece legati a gruppi criminali”. Sia chiaro: i combattenti partiti sinora alla volta della Siria sono una percentuale davvero irrisoria dei circa 330mila musulmani residenti in Danimarca. Meno dello 0,1%. Il che tuttavia non sembra rassicurare granché una parte significativa dell’opinione pubblica danese. Che ha sempre amato vedersi come una sorta di “grande tribù” di gente più o meno simile per valori, cultura, reddito, idee, costumi (e colore della pelle). E che invece ora deve confrontarsi con flussi migratori in crescita, e sobborghi come Tingbjerg, nella contea di Copenaghen, dove più di un residente su due è straniero o comunque di origini straniere.

Per Danmarks statistik, nel 2014 l’immigrazione ha toccato un picco storico: quasi 65mila arrivi (+15% rispetto al 2013), di cui oltre 5mila proprio dalla Siria. «L’immigrazione sarà il tema dominante dell’agenda politica danese per i prossimi anni. – diceva un paio di anni fa all’autore di quest’articolo Olav Hergel, noto giornalista e grande conoscitore del tema. Nel suo romanzo “L’immigrato” (Iperborea), Hergel descrive bene queste nuove generazioni, che magari hanno il passaporto danese ma che non si sentono danesi. Ragazzi che girano con i catenoni d’oro e l’aria da macho, che chiamano le ragazze “puttane” e gridano “a morte i froci”. Ragazzi figli di padri violenti, “finiti come misere amebe spalmate sul divano con la parabola rivolta verso la Mecca, a lamentarsi della società del benessere razzista”. «Tra i giovani danesi ci sono dei gruppi che si stanno radicalizzando. Fanno parte di movimenti islamisti come Hizb ut-Tahrir, o salafiti come Kaldet til Islam. – spiega Jacobsen – Il punto non è che i musulmani danesi sono più radicali, ma che in Danimarca l’ambiente è molto radicalizzato. Ciò è il risultato di vari fattori: le guerre in Afghanistan e Iraq, in cui Copenaghen è stata molto coinvolta; la retorica di politici e media che polarizzano e marginalizzano i giovani maschi musulmani; le difficoltà di integrazione nel mercato del lavoro per questi giovani, e la buona organizzazione di gruppi come Hizb ut-Tahrir». Il verdetto di Jacobsen è secco: «Il problema di questi ragazzi è la sensazione di esclusione e alienazione, la mancanza di speranza». D’altra parte non è facile integrarsi, quando il terzo partito in parlamento è il Dansk Folkeparti, forza politica populista che ha fatto dell’anti-islamismo uno dei suoi cavalli di battaglia. O quando una parte dei media, nei casi di cronaca nera, enfatizza sempre l’etnia e la fede dei presunti colpevoli. O ancora (come hanno constatato Gli Stati Generali) è difficile entrare in una discoteca di Copenaghen se hai la pelle scura. Afnan Azzouz ha 21 anni, è nata e cresciuta in Danimarca ma ha origini marocchine; è una studentessa modello, tra pochi mesi si laureerà in scienze sociali internazionali all’università di Roskilde.

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A Gli Stati Generali racconta: «Come molti altri musulmani, sono stata oggetto di frasi razziste. Cose del tipo “Torna nel tuo paese islamista”, “Fottuta maiala, che cosa fai qui in Danimarca?”, “I musulmani dovrebbero essere tutti uccisi”. Frasi del genere mi sono state dette in pubblico, di fronte a molte persone che hanno fatto finta di niente, e io ho sempre risposto con un sorriso, e augurando buona giornata». La Azzouz sa che i danesi islamofobi sono una minoranza, e in fondo lei è diventata «immune» agli insulti e al disprezzo. «Però non nego che mi rende molto triste sapere che c’è gente che mi odia solo perché sono musulmana». Non è l’unica, peraltro: «i giovani musulmani danesi si sentono costantemente discriminati per il loro aspetto e le loro origini. Mentre hanno bisogno di sentirsi utili per la società. Hanno bisogno di sperare». Chi perde ogni speranza diventa facile vittima dell’estremismo. O di gang come i Black Cobra, famigerata rete di estorsori e trafficanti di droga attiva in tutta la Danimarca (e Svezia). «El Hussein poteva anche essere motivato politicamente o persino religiosamente, ma il punto è che viveva ai margini della società. – sottolinea Kirstine Sinclair, del Centro per gli studi sul Medio Oriente contemporaneo dell’Università della Danimarca del sud. Poi riconosce – I giovani maschi musulmani sono sovra-rappresentati nelle statistiche sui reati. Ma c’entrano poco l’etnia o la religione, è una questione di condizioni sociali. I genitori di molti di questi giovani sono profughi traumatizzati, che non sanno nulla della società danese».

Ciò che succede in Danimarca, peraltro, si ripete anche altrove. «Ho una laurea e un lavoro qui, ma per strada capita che mi diano della “puttana musulmana” solo perché porto il velo. – dice a Gli Stati Generali Fatima, ventiseienne di origine turca che vive a Malmö, città portuale svedese famosa per la sua società multietnica. Come i loro coetanei danesi, anche molti giovani musulmani con il passaporto svedese si sentono degli stranieri, cittadini di serie B. Di certo la crescente islamofobia non aiuta. «Il clima in Svezia è pesante, e i sentimenti anti-musulmani stanno diventando più forti. – ha dichiarato a gennaio Omar Mustafa, presidente dell’Associazione Islamica Svedese, lamentando che nel corso del 2014 fossero state attaccate 14 moschee. Oltre a essere oggetto dei duri attacchi del partito di estrema destra Sverigedemokraterna, i musulmani di Svezia (in particolare i più giovani) godono di una pessima stampa: come si può leggere nel testo “Islamophobia in Western Europe and North America” (Routledge), nei media svedesi “i musulmani e l’Islam sono spesso associati a violenza e conflitti, a prescindere che siano vittime o responsabili. E con internet, il numero di pagine web ostili ai musulmani è cresciuto rapidamente. Secondo il giornalista David Lagerlöf, i siti ultranazionalisti rappresentano gli ebrei come cospiratori nascosti, mentre la minaccia dei musulmani deriva proprio dalla loro presenza fisica. Donne musulmane incinte o che spingono carrozzine sono comuni nei film e nelle foto di propaganda. Analogamente, i giovani musulmani sollevano sospetti per il semplice fatto di essere visibili nella società”. «I giornali svedesi dicono che Malmö è in balia dei criminali, delle gang di ragazzi musulmani, ma non è vero. – racconta a Gli Stati Generali Karim, edicolante afghano ventenne – Ce l’hanno con noi solo perché a differenza dei nostri genitori, che spesso non sanno neanche parlare bene lo svedese, noi vogliamo far valere i nostri diritti». Ma se la Scandinavia non è un’isola felice, le cose vanno ancora peggio nel resto dell’Europa occidentale. Secondo uno studio pubblicato nel 2010 dall’Agenzia per i diritti fondamentali della UE (FRA), i giovani musulmani residenti in Francia e Spagna subiscono molte più discriminazioni dei loro coetanei non-musulmani. In Franca, dove vive la maggiore comunità musulmana d’Europa, c’è parecchia islamofobia (termine peraltro respinto da politici di spicco come il primo ministro Manuel Valls, che lo giudicano uno strumento per tacitare i critici dell’islamismo).

Il rapporto sulla Francia pubblicato a febbraio dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks parla chiaro: “le statistiche mostrano un aumento di atti e discorsi di natura anti-musulmana o antisemita”. Purtroppo la situazione è peggiorata dopo l’attacco a Charlie Hebdo, con un aumento degli atti vandalici contro le moschee e degli episodi di intolleranza. “L’islamofobia è in grande spolvero in Francia in questo momento. – scrive su un forum online damir33 – La gente qui sembra pensare che il crimine e i comportamenti antisociali siano intrinsecamente collegati all’Islam. Sbagliato, il punto è che in passato il colonialismo francese ha rovinato i paesi musulmani, i loro cittadini hanno cercato una vita migliore in Francia, ma sono finiti in brutti sobborghi di periferia: ne consegue cattiva istruzione per i giovani e crimine”. Ismail ha una trentina d’anni, è egiziano e sta conseguendo un dottorato d’informatica in una città universitaria italiana. Ha un paio di amici arabi in Francia, e le notizie che gli mandano non sono buone. «Dopo Charlie Hebdo i musulmani sono trattati sempre peggio lì, e una parte di loro comincia ad arrabbiarsi. – dice a Gli Stati Generali – Ma pure qui in Italia la situazione sta peggiorando: personalmente, ho paura di non trovare un buon lavoro solo perché sono musulmano. Una decina di giorni fa ero in centro e un tizio mi ha gridato “Musulmano schifoso, tornatene nel deserto”. La cosa mi ha fatto arrabbiare molto, ma ho lasciato stare, perché la violenza è sempre sbagliata».

Chaimaa Fatihi è nata in Marocco nel 1993, però vive in Italia dall’età di sei anni; studentessa di giurisprudenza a Modena, è PR dei Giovani Musulmani d’Italia. «L’islamofobia sta crescendo moltissimo nel nostro paese, e i media ne sono i principali colpevoli. – dice a Gli Stati Generali – Laddove si usa un linguaggio impregnato di odio e disprezzo, le conseguenze possono diventare catastrofiche, lo insegna la storia. Abbiamo il dovere etico, morale e civile di disarmare il nostro linguaggio». Anche se poi le cose sono migliorate, alle superiori la Fatihi è stata vittima di «atti discriminatori, provenienti sia dai miei compagni che da una professoressa di lettere». A suo parere sono tanti i ragazzi musulmani oggetto di pregiudizi, specie le ragazze che portano il velo. «Non se ne parla molto ma ci sono discriminazioni quotidiane, come il rifiuto di assumere una donna perché indossa il velo, o la grande questione della cittadinanza, che molti stanno ancora aspettando nonostante siano nati o cresciuti in Italia». Il messaggio degli esperti e dei giovani sentiti da Gli Stati Generali è chiaro. Ai giovani musulmani d’Italia, Francia e Danimarca bisogna dare delle risposte. Soprattutto, bisogna almeno consentire la speranza di un futuro decente. Fatto di lavoro, rispetto, integrazione sociale. Non ci sono alternative. Perché chi sente di non avere un futuro, crede anche di non avere niente da perdere.

(immagine di copertina, Looking4Poetry, Flickr.com, free commons)

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