Questione islamica

Da Al Qaeda all’Isis: come i terroristi islamici si finanziano grazie a Google

1 Giugno 2016

Vista l’agenda setting del mondo moderno, per un piccolo sito d’informazione del terzo millennio è diventato ormai normale pubblicare notizie su attacchi terroristici, episodi di violenza, molestie e via discorrendo. Tuttavia, se il sitarello succitato decidesse di voler monetizzare quel poco di traffico a sua disposizione e scegliesse di piazzare qualche banner di Google AdSense sul proprio portale, dovrebbe stare molto attento alla pubblicazione di contenuti, diciamo così, “ipertestuali”. Già, perché seppur per mero dovere di cronaca da Mountain View qualcuno si rendesse conto che su una pagina con video troppo espliciti o immagini compromettenti ci fosse una pubblicità di AdSense scatterebbe la tirata d’orecchie. Che di norma si traduce in 72 ore di tempo per rimuovere o la notizia, o il banner di Google dalla notizia.

Una politica comprensibile, anche se non vale proprio per tutti, dacché altrimenti la metà dei portali delle principali testate mondiali dovrebbero rimuovere ogni volta un buon 20% di contenuti. Ma potendo vantare una certa sorgente di traffico e un chiaro interesse nel fare informazione in quei casi si chiude un occhio (o, semplicemente, ci si affida a banner pubblicitari più remunerativi di quelli di AdSense). Nonostante Google abbia intrapreso una guerra senza frontiere a suon di annunci sponsorizzati contro l’Isis, dagli Stati Uniti sanno bene che nello sterminato web possa succedere anche di far cilecca. D’altronde, solo nel 2014 sono stati più di 14 milioni i video oscurati da Google, e alcuni di questi includevano contenuti propagandistici a favore del terrorismo. Qualcuno potrà anche scappare. Per questo l’azienda ha di recente iniziato a fare rete, collaborando con un gruppo di ong inglesi per promuovere in modo totalmente gratuito i loro annunci sponsorizzati con messaggi di counter-speech (le risposte frequenti ai contenuti che incitano all’odio). Il progetto, in sostanza, funziona così: grazie a un programma già esistente, Google AdWords Grant, si cerca di fare in modo che quando gli utenti digitano termini legati al terrorismo, vedano comparire sulla loro pagina l’annuncio sponsorizzato anti-terrorismo.

Normalmente, invece, la censura di Google avviene attraverso il metodo più ovvio e intuitivo del mondo, ossia mettere un omino davanti a un pc nel suo sterminato quartier generale a “filtrare” più porcherie possibile in giro per il web. C’è chi racconta, ad esempio, di aver visto per mesi materiale pedopornografico, qualcosa come 15 mila immagini al giorno, affinché venissero rimosse dai vari Google Images, Picasa, Orkut, Google search, etc. Ovviamente, c’è chi ha dovuto avere anche il dispiacere di gustarsi tutti i video che Al Qaeda caricava sui propri portali (decapitazioni, morti, minacce), fino ad accusare seri disturbi mentali. Ad uno di loro, quando a fine contratto la psicologa di Google gli mostrò una delle immagini da interpretare, qualcosa di simile al test di Rorschach, sbottò, dicendo che gli sembrava fuori di testa. L’immagine ritraeva un padre che teneva suo figlio per mano.

Ora, visto il metodo tutt’altro che infallibile, e siccome il web rappresenta un’immensa risorsa in termini di propaganda, reclutamento e proselitismo per gli aspiranti jihadisti, va da sé che sia complicato tenere sotto controllo tutti i siti e tutto il materiale da rimuovere. Anche perché, una volta rimossi, ecco che vengono immediatamente spostati altrove. Le cellule terroristiche sono addirittura dotate di siti distributori che inseriscono documenti da copiare e trasferire sui server di siti secondari, ma non rappresentano una primaria fonte informativa. Sorreggono il sistema, diffondendo quanto proviene dai nodi chiave tramite mailing list e i gruppi di Yahoo e Google che, rispetto ai siti, vulnerabili agli attacchi di hacking o talora oscurati, garantiscono maggiore stabilità nel web. Gli amministratori o i lettori stessi comunicano gli spostamenti tramite newsletter e chat, riprendendo annunci dai siti che dislocano materiali propagandistici e ideologici. I siti produttori, quali As-Sahab, Al-Furqan, Al-FajrMedia, Global Islamic Media Front, Al-Ansar, consentono di fruire e diffondere materiale multimediale, videoclip e immagini.

Robe tipo “Series for preparation to jihad” e “Lessons in doctrine (Prepared for the mujahideen)”, o corsi per l’aspirante e-jihadista, esperto in internet, tecnologia e mass media.
Ad oggi si stimalo oltre 6 mila siti di questo genere. La rete diventa così il sostituto dei campi di addestramento, accorcia i tempi e mette in contatto i capi carismatici con gli adepti. La piattaforma aggrega, sollecita il senso di appartenenza e l’orgogliosa adesione al patrimonio culturale originario islamico.

Ah e, cosa non da poco, evita dispendi economici. Non solo, rappresenta pure una fonte di guadagno. Fece scandalo qualche anno fa la denuncia al SES di Chicago di Jim Hedger, di Webmaster’s Radio, che rivelò i contenuti di una indagine investigativa da cui risultava che Al Qaeda riuscisse ad usare il network sociale Orkut per organizzarsi e monetizzare tale traffico con AdSense
Addirittura i proprietari dei sitiutilizzavano tecniche di click fraud aumentando gli introiti. Un finanziamento indiretto e involontario, ovviamente. Ma siccome ai soldi nessuno chiede la carta d’identità, c’è da scommettere che su qualche colpo di mortaio il logo di Google potesse benissimo campeggiarci. Ultima in ordine di tempo la rivelazione del Financial Times, secondo cui Muhammad Jibril Abdul Rahman, noto come il principe della Jihad, accusato di aver finanziato gli attacchi suicida a Jakarta nel 2009 (e condannato a 5 anni) abbia usato AdSense per vendere spazi pubblicitari sul suo sito Internet a marchi internazionali come Citigroup, Ibm e Microsoft. Grazie al suo portale, Arrahmah.com, su cui compaiono anche immagini di impiccati e teste mozzate, è riuscito a guadagnare migliaia di dollari, quasi 500 al giorno per diversi mesi, forte delle circa 600 mila visite individuali mensili. In totale, il business della pubblicità online genera 160 miliardi di dollari. Se anche solo 10 siti come quello del principe della Jihad riuscissero ad eludere ogni anno i ban di Google, l’introito per i terroristi sarebbe comunque almeno a sei zeri.

Fonte: Cultora

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