Questione islamica

Curare l’islam radicale, raccontare la mediazione

2 Aprile 2021

Se per l’essere umano risulta, dunque impossibile cambiare, trasformarsi radicalmente, esso però è in grado di riconoscere la densa stratificazione di cui è composta la sua identità/personalità, e prospettare la possibilità di maturare all’interno di certe sedimentazioni e di poter “migrare” tra diversi atteggiamenti e pregiudizi (Giovanni Nadiani)

 

Di mediazione culturale e religiosa abbiamo sempre più bisogno.

Per il fatto di vivere in un mondo sempre più piccolo, interconnesso e in una società italiana sempre più multiculturale e multireligiosa.

In libreria sono disponibili numerosi manuali che forniscono la struttura, le ipotesi, i progetti di questa disciplina.

Da qualche tempo sono disponibili due splendidi libri che invece la mediazione la raccontano.

A partire da quei singolari tentativi di incontro che conduce da qualche anno nel carcere bolognese della Dozza il monaco della Piccola famiglia dell’Annunziata, padre Ignazio De Francesco.

Un penitenziario è un significativo laboratorio di convivenza plurale.

Padre Ignazio è stato monaco per 12 anni in Medio Oriente dove ha potuto imparare l’arabo e studiare l’islam e la cultura araba.

Tornato in Italia si è messo a disposizione dei detenuti soprattutto di lingua araba che sono per altro la maggioranza degli stranieri oggi nelle carceri italiane.

Vi conduce colloqui individuali, laboratori di lettura e di confronto.

I laboratori di lettura affrontano la necessità di ripristinare il nesso cultura/religione che il fondamentalismo nega. Quando questa negazione vince si aprono nelle carceri percorsi di radicalizzazione anche per chi vi giunge da musulmano privo di una pratica religiosa significativa.

Padre Ignazio legge con i detenuti la Costituzione italiana e avvia confronti con quella tunisina, algerina, egiziana.

Promuove quelli che lui chiama sentieri dell’anima perché sia possibile anche nelle carte che parlano di leggi e principi trovare delle mappe nautiche che insieme alle stelle, sono decisive per l’orientamento nel grande mare della vita in società.

Legge con i detenuti lo straordinario diario di viaggio di Ibn Battuta, esploratore musulmano medievale, perché sia la letteratura araba il luogo del dibattito nel suo promuovere curiosità e desiderio di incontro.

«Il problema della radicalizzazione in carcere è serio- dice Padre Ignazio- perché non è solo una questione di amicizia e buone parole. Le ideologie radicali sono strutture di pensiero potenti e coerenti, che richiedono conoscenze approfondite al riguardo.

Gli insegnanti e gli educatori delle case circondariali sono professionisti straordinari, ma di norma non hanno alcuna formazione islamologica specifica.

Discorso analogo vale per i mediatori culturali: parlano i mille dialetti delle persone detenute, ma l’islam che conoscono è per lo più quello ricevuto per osmosi dal contesto familiare. Così pure gli “specialisti della mente”, medici e psicologi: è chiaro che in molte storie di “lupi solitari” del terrorismo islamico ci sono delle sofferenze psichiche ma, per decifrarle e trattarle, c’è bisogno di una considerazione molto più fine delle culture di partenza.

È quello che fa l’etnopsichiatria, ma quanti in carcere e nei servizi sociali esterni la conoscono e la possono praticare con competenza?

La de-radicalizzazione è un lavoro paziente, individuale, che va iniziato in carcere e poi continuato fuori, in quel periodo di tempo cruciale rappresentato dai primissimi mesi di libertà, perché tornare liberi è uno choc più profondo dell’arresto. Ti può afferrare un senso di disorientamento e di frustrazione rispetto al quale la religione, nella sua versione “contro”, può funzionare come unico punto di riferimento».

Tutto questo lavoro è ora raccontato in due libri davvero preziosi. L’uno è già diventato un’opera teatrale che ha conosciuto decine di rappresentazioni. L’altro lo diventerà appena la pandemia allenterà la morsa.

La convinzione di fondo è che sia possibile l’incontro non dialogando sui dogmi religiosi perché questa strada conduce alla competizione sterile tra contenuti sostanzialmente immodificabili.

Piuttosto è possibile un incontro sui propri orizzonti culturali per dar vita a riconoscimenti e rispetto reciproci.

Il primo libro, LEILA DELLA TEMPESTA[1], è il racconto di una serie di dialoghi tra un monaco e una donna, giunta clandestina in Europa poi coinvolta in un traffico di stupefacenti. Dalla problematica del reato si passa agli orizzonti del dialogo tra civiltà e religioni su temi di convivenza quotidiana per attraversare i problemi della cittadinanza e dell’inclusione.

Il secondo libro, SIMEONE E SAMIR[2], narra l’incontro fortuito di un cristiano e di un musulmano sullo sfondo dello scontro delle crociate medievali. Nascono dialoghi notturni che affrontano il complesso tema dell’intrecciarsi di cristianesimo e islam, Bibbia e Corano, fino a comprendere la vicenda di Francesco d’Assisi e il suo incontro in Egitto nel 1219 con il sultano al-Malik al-Kamil. Un racconto che proietta una luce fino all’incontro nel 2019 di papa Francesco con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, che ha dato vita al documento: La fratellanza umana per la pace e la convivenza comune. E così dal passato lontano siamo condotti ai colloqui odierni.

«In una società plurale e in via di meticciamento la narrazione è destinata a diventare il nucleo centrale dell’apprendimento, lo spazio comunicativo dell’incontro tra i soggetti e le culture» (A. Nanni).

 

 

[1] Ignazio De Francesco, Leila della tempesta. Un’avventura di dialogo tra le culture, Zikkaron 2016
[2] Ignazio De Francesco, Simeone e Samir. Dialoghi notturni tra un cristiano e un musulmano. In fuga, Zikkaron 2019

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