Questione islamica

Contro l’Isis non bastano bombardamenti ‘spot’: serve l’intervento di terra

8 Settembre 2015

Matteo Renzi ha davvero ragione: “Le iniziative spot servono e non servono”, ha detto parlando della guerra all’Isis in riferimento alle operazioni aeree annunciate da Francia e Gran Bretagna a distanza di pochi giorni. Vedendo i risultati ottenuti dai bombardamenti avviati dagli Stati Uniti, in realtà sembra davvero che non servano. Perché, al di là di tutte le titubanze, solo un in intervento di terra può avere le speranza di sottrarre porzioni di territorio all’Isis. Ma il costo sarebbe molto elevato in termini di vite umane.

Beninteso, la questione non è quella di assumere una posizione guerrafondaia, ma di prendere coscienza che il gruppo Stato islamico non può essere tra sradicato con bombardamenti dell’alto. Altrimenti è meglio ammettere che l’obiettivo è il contenimento dell’avanzata, una sorta di freno che può durare decenni. Il giornalista Domenico Quirico, profondo conoscitore del territorio e a lungo ostaggio degli islamisti, ha spiegato quale sarà l’evoluzione dei fatti senza un cambio di strategia.

I jihadisti non si muovono da lì per i prossimi 30 anni se qualcuno non va lì con forze, che attualmente non abbiamo, per cacciarli. Il califfo non è Bin Laden che stava nascosto nella grotta. Questa è una cosa completamente nuova: c’è una frontiera di due Stati che è stata disintegrata, creando una frontiera nuova che nelle carte geografiche non c’è. Le carte geografiche del mondo oggi sono false. La grande trovata pubblicitaria del califfato è stato dire: “Io sono il califfo, voglio ricostruire il grande califfato del VI secolo”. […] Questo è pericoloso, perché c’è un progetto, non è la follia di quattro fanatici: l’islamismo non è un problema psichiatrico, ma politico e, quindi, molto più difficile da risolvere.

Tra l’altro francesi e britannici hanno obiettivi diversi e tutt’altro che coordinati anche negli interventi ‘spot’ annunciati: Parigi vuole colpire i centri di comando dell’organizzazione islamista per indebolirne la struttura, decapitando i vertici; Londra compie delle azioni di prevenzione rispetto ai foreign fighters di ritorno capaci di preparare attentati in patria. In linea teorica l’intento è lo stesso, ossia stroncare la crescente forza dell’Isis, ma nel concreto c’è una diversa modalità di azione che non scalfisce la potenza militare degli islamisti. Anzi gli adepti dell’autoproclamato Califfo continuano ad arruolare persone disposte a morire in nome dell’ideologia estremista. Un serbatoio che può essere potenzialmente infinito, se contiamo i milioni di ragazzi a cui è negata l’istruzione in Medio Oriente e Nord Africa, come ha rivelato un rapporto dell’Onu. E di cui l’Occidente non deve dimenticarsi, prima che sia troppo tardi.

Carlo Jean, generale di corpo d’armata e docente e presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica, nell’ottobre 2014, a pochi mesi dall’inizio delle operazioni aeree, aveva già sintetizzato la situazione in un’intervista:

Con i bombardamenti, Isis si rifugia nelle città, fra la popolazione, dove diventa impossibile colpirli dal cielo. Senza truppe di terra, non possono essere sconfitti. Se gli obiettivi di Obama sono quelli di prima degradare e poi distruggere l’Isis, ci vogliono forze di terra.

Il bilancio 11 mesi dopo conferma in pieno la sua visione, anche perché le forze locali – come l’esercito ufficiale iracheno e i combattenti curdi – stanno affrontando numerose difficoltà di varia natura. I militari di Baghdad non hanno l’adeguato sostegno del governo centrale, mentre i curdi sono costretti a fare i conti con le bombe elettorali del presidente Recep Tayyip Erdoğan che teme la nascita di uno Stato curdo. Addirittura l’ex premier Tony Blair, che sul tema della guerra in Iraq ha logorato la sua immagine, ha rotto gli indugi da tempo, sottoponendosi ai legittimi sberleffi dei suoi detrattori. Ma l’ex numero uno del Labour ha sostenuto la necessità di combattere i jihadisti sul proprio territorio.

Senza una strategia globale, ci troveremo ad affrontare un futuro segnato da conflitti e instabilità, attraverso e grandi atti di terrorismo nelle nostre terre. La singola azione contro l’Isis non sarà sufficiente. Dobbiamo riconoscere la natura globale del problema. Non si può sradicare questo estremismo senza andare a combattere nei luoghi dove proviene.

D’altra parte nessuno, compresa la Russia di Vladimir Putin alleata di Bashar Assad, ha davvero intenzione di mandare a morire migliaia di soldati sul territorio siriano e iracheno. La soluzione alternativa sarebbe l’impegno dei Paesi arabi, con Arabia Saudita e Giordania capofila. Ma in questo caso entrerebbero in gioco fattori geopolitici, come la posizione dell’Iran che vuole scongiurare l’allargamento dell’influenza delle potenze avversarie. Perciò, al di là di ogni retorica, non esiste Paese che abbia in mente non dico di mandare truppe contro l’Isis, ma nemmeno di ammettere che quella sarebbe l’unica soluzione possibile. Perché tutto il resto è contenimento, se non addirittura – per dirla con Renzi – solo uno spot.

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