Mondo

Una lettera da Gerusalemme

Ester writes to Alessandro from Jerusalem, sharing her deep doubts and reflections on Israel’s political and social turmoil. She discusses the rise of the far-right, the lingering trauma of recent violence, and the fragile hope offered by a ceasefire.

19 Gennaio 2025
Caro Alessandro,
Ti scrivo da Gerusalemme, con il cuore colmo di dubbi e domande che sembrano non trovare risposta. Gli eventi degli ultimi mesi hanno sconvolto profondamente la nostra società, e mi sento come sospesa tra speranza e disillusione. Non posso fare a meno di pensare a quanto la realtà che viviamo qui sia lontana da quella che sogniamo nei nostri momenti migliori.
L’estrema destra israeliana ha raggiunto un peso politico senza precedenti, rappresentata da figure come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. I loro discorsi e le loro azioni sembrano costruire un muro sempre più alto, sia fisico che simbolico, tra noi e i palestinesi, ma anche tra israeliani stessi. Parlano di sicurezza, ma io mi chiedo: quale sicurezza può nascere dalla paura perpetua e dall’esclusione? Il loro progetto di uno Stato ebraico sempre più influenzato dalla legge religiosa rischia di soffocare la pluralità che, nel bene e nel male, ha sempre caratterizzato Israele.
Il trauma del 7 ottobre è ancora vivo. Le immagini degli attacchi di Hamas, la paura, il dolore per le vittime e gli ostaggi – tutto questo ha lasciato cicatrici profonde. Qui all’Università Ebraica, dove studio filosofia con il professor Daniel Epstein, le discussioni sono intense, ma mai semplici. Cosa significa essere israeliani oggi? Come possiamo conciliare il nostro bisogno di sicurezza con i valori di giustizia e pace che dovrebbero guidarci? Molti, anche tra i moderati, si sono spostati verso posizioni più dure, spinti dalla vulnerabilità che abbiamo sentito quel giorno. Ma io non riesco a smettere di chiedermi: dove ci porta questa strada? Ogni bomba su Gaza, ogni vita spezzata – israeliana o palestinese che sia – ci allontana dalla possibilità di un futuro diverso.
Il cessate il fuoco firmato ieri a Doha è un piccolo spiraglio, ma è fragile. Scambiarsi prigionieri, far entrare aiuti umanitari – sono gesti importanti, ma non bastano. L’accordo divide il nostro governo: Smotrich e Ben-Gvir lo attaccano come una resa, mentre altri sperano che possa aprire una nuova fase. Io vorrei credere che sia così, ma la verità è che le divisioni interne sono profonde, e Netanyahu stesso è una figura che non unisce. Le sue accuse di corruzione, le proteste contro la riforma giudiziaria, la gestione controversa del conflitto – tutto questo rende difficile immaginare una leadership capace di guidarci fuori da questa crisi.
E poi c’è il ritorno di Trump. Qui molti lo vedono come un alleato indispensabile, ma io non posso fare a meno di pensare che il suo approccio, così simile a quello di Netanyahu, possa solo esacerbare le tensioni. Gerusalemme, riconosciuta come capitale, è diventata un simbolo di divisione più che di unità. Gli insediamenti si espandono, e la soluzione a due Stati sembra ormai un miraggio lontano.
Caro Alessandro, ti scrivo non per trovare risposte, ma per cercare un dialogo. Tu, dall’Italia forse puoi aiutarmi a vedere le cose in modo diverso. Io credo che solo nel rapporto tra io e tu, nella capacità di ascoltare davvero l’altro, possiamo trovare una strada. Ti chiedo: come vedi tutto questo? Da qui sembra tutto così intricato, ma forse c’è una semplicità che non riesco a cogliere.
Attendo le tue parole, come si attende un amico su una strada deserta. Ti mando un abbraccio pieno di affetto e speranza.
Con amicizia e affetto,
Ester
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