Italia

Quando nessuno ti chiama più per nome, smetti di esistere

Non siamo mai stati così connessi. E mai così soli

10 Aprile 2025

La solitudine non è silenzio. È assenza. Non è stare da soli. È non essere più cercati. È accorgersi che si può sparire dal mondo senza che nessuno lo noti. Non è più un’emergenza. È diventata la condizione. Una normalità nascosta sotto l’efficienza, sotto le notifiche, sotto le giornate piene. Ma la verità è che oggi si può vivere senza mai essere toccati, senza mai essere chiamati per nome. La solitudine non è romantica. È una malattia che non fa rumore.

Un tempo si aveva paura di restare soli. Oggi si impara a farlo presto. Si insegna a bastarsi. A non chiedere troppo. A non disturbare. A rispondere “tutto bene” anche quando si crolla. I bambini imparano che i genitori sono distratti. Gli adolescenti imparano a confidarsi con uno schermo. Gli adulti imparano a indossare maschere. Gli anziani imparano a sparire lentamente. Tutti imparano a non dire. A non aspettare. A non sperare. Ma nessuno dovrebbe imparare questo. Perché questo non è crescere. È ritirarsi.

I terapeuti lo vedono ogni giorno. Il sintomo non è il dolore. È il vuoto. Dicono: non si viene più per cercare una cura. Si viene per cercare una voce. Un testimone. Qualcuno che dica: ci sono. E che resti. Nonostante la vergogna, la fatica, la mancanza di parole. La solitudine è diventata il nome nuovo della sofferenza psichica. Non si ha più un trauma da superare. Si ha una mancanza da abitare. Nessuno sa più dove andare quando cade. E nemmeno sa più se ha diritto a chiedere aiuto.

La psicanalisi l’aveva capito. Il legame viene prima del pensiero. La relazione viene prima dell’io. Non si è mai soli per natura. Lo si diventa per abbandono. La solitudine, quando non è scelta, è la forma più radicale della non-esistenza. Eppure, oggi è scambiata per autonomia. Per maturità. Per libertà. Ma la libertà, quando non ha più nessuno a cui rivolgersi, è solo uno spazio vuoto. Un deserto dove si deve correre per non fermarsi. E chi si ferma, inciampa in sé stesso.

La letteratura francese lo ha raccontato con voce sottile. Da Camus a Houellebecq, la solitudine dell’uomo moderno non è drammatica. È abitudinaria. È educata. È senza conflitto. E proprio per questo è pericolosa. Non si ribella. Non si mostra. Non chiede. Si adatta. Come fa l’acqua quando la lasci evaporare lentamente. Come fanno le relazioni che muoiono per inerzia. Come fanno le vite che si riducono a funzioni.

Ma c’è un punto in cui la solitudine non è più solo mancanza. Diventa cifra. Diventa specchio. Diventa domanda. Chi ha il coraggio di attraversarla fino in fondo, scopre che l’altro non è un conforto, è una necessità. Che l’amicizia non è compagnia, ma riconoscimento. Che l’amore non è riempire un vuoto, ma abitare insieme una mancanza. Che si è liberi non quando si è soli, ma quando si è in grado di stare accanto senza possedere.

La solitudine non va riempita. Va ascoltata. Perché, se la si tace, diventa prigione. Ma se la si guarda, può diventare porta. Non si guarisce dalla solitudine. Si può solo imparare a farle spazio. E aspettare che, un giorno, qualcuno lo attraversi.

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