Italia

Mentre moriva Francesco, altrove moriva Franca

Nel tempo in cui tutto si dice, forse solo il silenzio è ancora vero

23 Aprile 2025

Per il funerale bisognerà aspettare sabato. E il cordoglio è diventato rumore. Biografie a orologeria, ritratti riciclati, parole di circostanza. La morte non è più un’assenza. È una programmazione editoriale. Il corpo che si spegna diventa esposizione. Si producono omaggi prima ancora che il cuore smetta di battere. Si scelgono le immagini migliori, le frasi più condivisibili, le inquadrature giuste per la memoria collettiva. Ma la memoria non si fabbrica. Si custodisce.

Francesco — il Papa dei gesti — meritava almeno questo. Non un’agonia trasformata in evento, ma un’interruzione. Una sospensione. Una parola che non si dice. Perché non tutto deve essere detto. E soprattutto, non tutto deve essere detto subito. Il lutto, come la preghiera, non ha bisogno di essere trasmesso in diretta.

Mentre moriva Francesco, altrove moriva Franca. Novantasei anni. Nessuna foto. Nessun necrologio. Una badante ha aspettato l’ambulanza. Poi ha chiuso le persiane. Non c’erano parenti, né cronisti. Non c’era nessuno a raccontarla. Franca non era su Facebook. Non era nei pensieri di nessuno. Ma aveva vissuto. Un marito perso troppo presto. Una figlia all’estero. Un lavoro da sarta che le aveva cucito addosso anni di silenzio. Nessuna biografia. Solo una finestra che si è spenta nel giorno sbagliato, nel posto sbagliato, per attirare l’attenzione di qualcuno. E forse, proprio per questo, Franca assomiglia di più alla verità della morte.

Ma oggi lasciare andare è diventato l’unico gesto illegale della narrazione. Non monetizza. Non commuove in diretta. Non si presta a un hashtag. È un’assenza che non si può gestire. Un gesto che non si può vendere. Byung-Chul Han scrive che “il rumore del mondo si fa passare per comunicazione”. Ma il dolore vero non comunica. Non produce contenuto. Non cerca like. Il dolore vero si ritira. Fa spazio. E invece noi, davanti alla morte, al posto della pausa necessaria, mettiamo una storia. Una caption. Una diretta.

E allora resta solo una domanda: chi ha ancora il coraggio di tacere? Chi ha la forza di non aggiungersi? Chi sa che l’assenza, quando è scelta, non è rinuncia ma resistenza?

Perché oggi anche il gesto trattenuto deve essere motivato. Deve essere reso presentabile. Spiegato. Autorizzato. Non basta più rimanere in disparte. Devi dire perché lo fai. Devi farlo sapere. Altrimenti sembri assente, disinteressato, colpevole. Abbiamo trasformato la morte in una prestazione collettiva, e chi non partecipa viene escluso dal rito. Ma l’unico vero rispetto è lasciar scendere il sipario senza chiedere l’applauso. È sapere che non tutto è nostro. Che non tutto è da dire.

E lo so. Anche questo stesso spazio non detto, io stesso, lo sto violando. Non mi sottraggo. Prendo una porta laterale. Non quella principale, dove sfilano i titoli, le analisi, gli omaggi. Ma nemmeno esco del tutto. Perché uscire davvero, oggi, è impossibile. Nessuno può più permettersi l’invisibilità. Nessuno può davvero restare fuori scena. Ci resta solo la possibilità di scegliere il margine da cui guardare. Ed è lì, in quel margine, che questa storia si tiene in piedi. Non urla. Non consola. Non pretende di avere l’ultima parola. Dice solo che, forse, non tutto è nostro. Che non tutto è da dire. Che anche un vuoto lasciato può essere un pensiero intero.

Forse oggi, nel tempo delle liturgie visive, la vera eresia è non fare rumore.

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