Italia
Il complesso militar-industriale italiano in un Atlante
Intervista a Carlo Tombola, The Weapon Watch
In queste settimane il riarmo europeo è al centro del dibattito politico. 800 (presunti) miliardi di euro, con un aumento dell’1,5% della spesa militare dei paese membri e in deroga ai vincoli di bilancio: con l’industria bellica italiana pronta a reclamare la sua parte. Ma cos’è concretamente il complesso militar-industriale italiano? Come si intreccia all’industria della difesa globale? Come si disloca sul territorio, con quali specializzazioni e quali rischi per il nostro paese? Ne parliamo con Carlo Tombola, geografo e militante, tra i fondatori di The Weapon Watch e tra gli autori di un lavoro ciclopico, un Atlante della difesa italiana: una mappa compilata meticolosamente delle imprese della difesa (e delle basi militari), sede per sede, per settore – armi, aerospaziale, logistica, vestiario ecc. – con schede che elencano numero dei dipendenti, fatturato annuo, autorizzazioni all’esportazione ex lege 185/90 e altri dati, uno strumento di ricerca militante, a cui persino Mediobanca ha tributato un riconoscimento, citandolo tra le fonti del suo rapporto sulla difesa.
Partiamo dall’Atlante: come e perché è nato?
L’idea dell’Atlante nasce tempo fa. Da geografo ho una sensibilità per il territorio e il bisogno di mappare. Inoltre mi occupo da una trentina d’anni del settore delle armi. In Italia le uniche fonti utilizzabili sono le grandi aziende come Leonardo e i centri di ricerca della Difesa: in sostanza non ci sono fonti indipendenti. Ed è un problema perché quando ad esempio si parla di riconversione dell’industria bellica e del suo impatto sull’occupazione bisogna sapere di cosa stiamo parlando, di quali aziende, dove si trovano e quanti dipendenti hanno. Perciò abbiamo pensato di creare un archivio indipendente, parlandone con vari soggetti che si occupano di questi temi, come la Rete Italiana Pace e Disarmo e la CGIL, senza grandi riscontri, però, anche perché su questi temi è chiaro che pesa, appunto, il timore dell’impatto occupazionale. Perciò ci siamo mossi da soli. Abbiamo raccolto i dati utilizzando tutte le fonti reperibili. Un ingegnere informatico che ha lavorato per molti anni negli Stati Uniti ha organizzato il database, ha creato la mappa virtuale su internet e oggi studia come utilizzare l’IA per elaborare i dati, ad esempio estraendo in modo automatico i link tra aziende. The Weapon Watch, nato per sostenere le lotte del CALP di Genova, ha adottato lo statuto di Centro di ricerca internazionale.
Avete avuto riscontri?
In cinque anni abbiamo registrato diversi piccoli successi: abbiamo portato il progetto alla Commissione Europea, partecipato a un convegno del sindacato tedesco Ver.di e abbiamo sollecitato altre organizzazioni che hanno creato atlanti nazionali (in Spagna, Gran Bretagna, inoltre la Rosa Luxemburg-Stiftung ha pubblicato un atlante per la Germania e una ONG belga gestisce un database dei gruppi maggiori) per lanciare un progetto europeo. Infine nel rapporto di Mediobanca sulla Difesa siamo stati inseriti tra le fonti primarie.
Per ora solo la versione virtuale dell’Atlante è accessibile a un numero limitato di studiosi. E per il futuro?
L’idea è di pubblicarne almeno una parte a mo’ di atlante cartaceo. Abbiamo dei contatti con un editore con cui avevamo già pubblicato un libro sull’industria militare e spero che si possa uscire in tempi abbastanza brevi.
Aldilà della ricerca, ci sono anche degli impieghi pratici?
Certo, uno è anticipare le guerre prima che scoppino. Le armi arrivano sui teatri di guerra sempre prima dei soldati. Nel caso delle forze armate americane almeno sei mesi prima. I contratti della logistica militare vengono stipulati sempre molto in anticipo. Alla Commissione Europea abbiamo proposto anche un sistema di early warning. Esistono già servizi di tracciamento delle navi e degli aerei, che in parte tracciano anche i mezzi militari. Ma è possibile ampliare la tracciabilità.
Veniamo all’industria bellica italiana. Guardando l’Atlante ci sembra che sia un sistema talmente frammentato che è praticamente impossibile controllarlo.
Sì, il sistema è già largamente illeggibile. Ora poi il governo vuole modificare la legge 185 togliendo i dati sui destinatari delle armi e il controllo diventerà praticamente impossibile. Questo avvantaggia le aziende, che non amano finire sui giornali. Noi abbiamo pubblicato schede in cui emergono dati e intrecci, cointeressenze tra aziende e soggetti di diversa natura, così come abbiamo denunciato il fatto che l’Italia è uno dei primi tre paesi fornitori di Israele. In qualche caso quelle schede sono state utilizzate dagli attivisti per organizzare proteste e controinformazione.
Che cos’è l’industria della difesa in Italia?
L’industria della difesa italiana è in larghissima misura Leonardo, un’azienda di Stato – il Tesoro controlla il 32% – ma con investitori istituzionali, soprattutto banche e fondi anglo-americani – che sta smantellando la produzione civile per concentrarsi sul militare. 35.000 dei 55.000 dipendenti sono in Italia, per il resto i pilastri di Leonardo si trovano in Regno Unito, Polonia e USA. Di recente il management ha acquisito un’importante azienda israeliana, anche se nell’ultima relazione di bilancio non compare. Oltre a fabbricare armi, Leonardo esercita un’ampia influenza sulle relazioni internazionali, in particolare con Washington e col Pentagono, con cui l’Italia tradizionalmente ha un rapporto particolare. Il nostro paese, ad esempio, non è entrato nel consorzio europeo Airbus, mentre è un importante fornitore del settore aero-spaziale degli USA e ha strettissimi legami con Israele. In Italia, oltre alla sede centrale, Leonardo ha 55 sedi secondarie in Italia, ma consultando i dati delle Camere di Commercio, ne abbiamo trovate altre 50, in larga misura presso caserme, strutture militari o magazzini logistici. Oltre a Leonardo e a Fincantieri, l’altra azienda di Stato con una importante componente militare, il nucleo forte dell’industria bellica italiana conta circa 230 aziende, anche straniere. Gruppi americani, come Pratt&Whitney, che fa motori aerei, e General Electric, che fa sistemi e componenti per l’aviazione militare. Dopo anni di apparente declino, nell’ultimo anno è cresciuta la sensazione che l’Italia possa tornare a essere una base importante per gli americani. Poi ci sono Rheinmetall (RWM) e Thales, presenze che riflettono il tentativo italiano di legarsi alle difese francese e tedesca. Per parte sua Rheinmetall ha usato la filiale italiana per aggirare i divieti della Merkel all’esportazione di bombe in Arabia Saudita. Poi ci sono grandi aziende italiane private come la parte militare di Iveco (IDV), ultimo pezzo ex FIAT rimasto in mano a Exor, la finanziaria degli Agnelli-Elkann, che la usano come canale per parlare ai governi. Tutto il resto è una miriade di piccole e medie aziende, che riproduce la struttura frammentata e familiare della manifattura italiana, con alcune eccellenze.
Tipo?
Ci sono aziende che hanno capacità tecnico-produttive peculiari, ad esempio nel settore della ceramica, che esportano volumi importanti. Una di queste, Industrie Bitossi di Vinci (Firenze), esporta macchinari per la produzione di palline ceramiche, che servono per la blindatura dei carri armati. Altre producono materiale composito per carene e strutture esterne per l’avio-elicotteristico.
Un altro campo in cui l’Italia va forte è la cyber security…
Tutto lo spettro cyber-security rappresenta un altro mondo e abbiamo mappato anche quello. Qui ci sono due livelli. Il primo sono microaziende come Equalize, quella implicata di recente nello scandalo che ha lambito anche La Russa, spesso col coinvolgimento di poliziotti che arrotondano o ex agenti che si sono licenziati per dedicarsi a quell’attività, sono collocate perlopiù attorno a Roma. Poi ci sono grandi gruppi come Almaviva, con migliaia di dipendenti che forniscono servizi web, ad esempio la parte amministrativa delle utilities, intervengono anche sull’hardware delle reti elettriche e hanno un potere enorme. Leonardo ha assorbito Vitrociset, che opera per le banche dati della polizia e dei carabinieri.
Nel database dell’Atlante sono incluse anche le basi militari, tra cui quelle NATO che suscitano tanto dibattito a sinistra.
Lasciatemi dire che tutta questa attenzione alla sovranità territoriale, emersa negli ultimi anni, è singolare: è dal 1945 che siamo occupati per effetto della guerra voluta dai fascisti. Pensare che davvero che gli americani se ne vadano, magari perché ora c’è Trump, è da ingenui. Ci sono altri aspetti, invece, di cui si parla poco: l’impatto ambientale e la compartecipazione alle operazioni militari delle basi. Da almeno 30 anni la situazione è cambiata. Finché c’era l’URSS le basi servivano a difendere il territorio. Ora servono a proiettarsi verso il Medio Oriente e l’Oriente. E sono cambiate anche le relazioni col territorio. Una volta, penso ad esempio a Napoli, c’erano i mercatini dove si vendevano oggetti militari provenienti dalle basi e i soldati che andavano a ubriacarsi nei locali. Oggi i militari NATO vivono perlopiù asserragliati nelle basi, che sono diventate cittadelle fortificate ed estremamente autonome, in cui molti servizi vengono forniti da grandi imprese italiane. Nei giorni scorsi i giornali hanno riportato la notizia che anche a Camp Darby, la più grande base militare americana all’estero, è arrivata la lettera di Musk che chiede a tutti i dipendenti pubblici che cosa fanno per gli Stati Uniti. Tra i destinatari c’è anche un centinaio di lavoratori italiani impiegati nelle pulizie e nelle mense.
Le basi, dicevi, riflettono anche la compartecipazione italiana alle operazioni militari. Che impatto ha sulla nostra sicurezza?
L’Italia è seduta sulle loro bombe e questo sollecita diverse considerazioni. Gli USA non hanno mai firmato la convenzione sulle mine antiuomo, per cui è certo che le basi NATO in Italia ne siano piene. Poi ci sono due basi con le testate nucleari, Aviano e Ghedi, a cui forse dobbiamo aggiungere anche Sigonella. E le basi della marina. A La Spezia ingrandiranno gli approdi nella base, quindi navi e sommergibili nucleari americani arriveranno anche lì. Gli americani rivogliono anche la base sarda alla Maddalena. E di fronte a queste richieste i nostri governi fanno a gara per mostrarsi servizievoli.
Infine c’è l’influenza in termini economici e sociali.
Per capire l’indotto delle basi militari NATO è possibile consultare la relazione annuale delle spese del Ministero della Difesa USA, che elenca tutti i contratti di fornitura di importo superiore a 25.000 dollari. Ci sono circa 150 aziende italiane: dalle grandi imprese di costruzione, come We Build e Pizzarotti, impiegate nell’ammodernamento delle basi, fino ai dentisti che curano i militari a Sigonella. In questo modo si può mappare anche la geografia dell’indotto, che comunque è limitata. I costi ambientali, invece, sono pesanti: ampi spazi occupati in zone centrali delle nostre città, a cui si somma il traffico generato dai veicoli. A Vicenza, ad esempio, ci sono due basi a 5 chilometri di distanza l’una dall’altra, che generano un traffico di 5.000 veicoli al giorno. Poi ci sono servitù militari intrinsecamente pericolose come polveriere e depositi di munizioni, alcune collocate negli aeroporti, come a Capodichino. Sono rischi ma anche costi, a cui Greenpeace un paio di anni fa ha dedicato un progetto di ricerca pilota sull’impatto ambientale della difesa. Invece di rivendicazioni velleitarie della sovranità credo che sarebbe utile una maggiore attenzione ad aspetti come questo.
In questo contesto che cosa rappresenta il Rearm Europe?
Dal nostro punto di vista, osserviamo che è già in corso una grande ridistribuzione di denaro pubblico verso i settori implicati nel complesso militare-industriale. È l’inizio di un’onda lunga, i big dell’industria militare cominceranno a investire in nuovi impianti se avranno davanti almeno un decennio di ordini sicuri, come ha recentemente affermato Papperger, il CEO di Rheinmetall, forse la maggiore azienda al mondo nelle munizioni da guerra. Perché questo avvenga, bisogna attivare una “bolla” finanziaria favorevole ai grandi gruppi della difesa, e per sostenere la bolla è necessaria una credibile narrazione che insista sull’insicurezza, sulle minacce geopolitiche, sull’aggressione migratoria, sulle guerre. Se gli Stati cesseranno il sostegno all’automotive per spostare risorse sul militare, ne soffriranno tutti i comparti su cui si è storicamente fondata la specializzazione manifatturiera di Germania, Italia, Francia, ecc. a cominciare dalla metalmeccanica, trasversale a molti sottosettori. Il profilo produttivo dell’Europa – e quindi anche quello sociale e il welfare – si avvicinerà al modello americano, deindustrializzato e dominato dal terziario gestito dalle piattaforme.
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