Italia
“Coltivare il ghiaccio in Antartide”: uno sguardo diverso sul Mezzogiorno
Uno dei grandi problemi che frenano il potenziale di crescita e sviluppo di molti paesi è riconducibile a un fenomeno che potremmo riassumere con l’espressione “misallocation of society’s workforce”. Questo il messaggio di un corpus crescente di letteratura economica che si occupa di indagare la relazione tra produttività del lavoro e collocazione geografica delle persone, sia a livello nazionale che a livello globale.
In sintesi, laddove “il numero dei […] lavoratori che ha accesso alle città ed ai luoghi più produttivi” incontra limitazioni di varia natura, la perdita in termini di Pil aggregato risulta essere assai consistente. Tali ostacoli possono nascere,
a) dalla mancanza di un’adeguata offerta abitativa a prezzi competitivi nelle “high productive cities” (si pensi a New York o San Francisco), spesso causata da piani regolatori troppo rigidi, come hanno indicato Enrico Moretti e Chang-Tai Hsieh per gli Stati Uniti, argomentando persuasivamente che,
“lowering regulatory constraints in these cities to the level of the median city would expand their work force and increase U.S. GDP by 9.5%”;
b) dalle frontiere e dalle restrizioni che impediscono alle persone che vivono nei paesi in via di sviluppo di spostarsi verso zone del mondo dove la produttività del loro lavoro potrebbe più che decuplicare, come ha mostrato, tra gli altri, Bryan Caplan,
“[…] si tratta di muovere risorse produttive – persone – da luoghi in cui sono poco più che inutili dal punto di vista del proprio lavoro, a luoghi in cui possono dare un grosso contributo. Si potrebbe pensare che spostarsi da Haiti agli Stati Uniti comporti un aumento del salario di circa il 20%, ma non è così. Parliamo di cifre vicine al 2,000% in più. La differenza di produttività del lavoro tra le regioni più povere e quelle più ricche è tale che è persino difficile rendersi conto della sua reale portata”.
Intrappolare risorse umane in aree caratterizzate da produttività molto bassa, “lasciare che rimangano a coltivare il ghiaccio in Antartide”, parafrasando lo stesso Caplan, ha un costo per l’economia mondiale che ammonta probabilmente a numerosi trilioni di dollari;
c) da decisioni politiche che finiscono per fornire gli incentivi sbagliati, confinando inutilmente decine (centinaia?) di migliaia di persone in contesti ormai decadenti, come nel caso della città di New Orleans, sul quale merita soffermarsi un poco più estesamente al fine del nostro discorso.
Nel 1840 il principale porto della Louisiana era la terza città americana; nel corso del ‘900, complice la nascita del container e il migrare altrove delle rotte commerciali più redditizie, perse progressivamente importanza, adagiandosi in un lento declino, e passando così dai 627,000 abitanti del 1960 ai 485,000 del 2000, perdendone poi ulteriori 40,000 dal 2000 al 2004. Nel 2005, prima che Katrina colpisse in tutta la sua violenza, circa il 27% dei residenti versava in stato di povertà (vs il 12% della media americana), e il reddito mediano di una famiglia si fermava al 64% di quello degli Stati Uniti.
A seguito dell’alluvione, la più parte dei politici si produsse in una sorta di gara a chi prometteva più miliardi per la ricostruzione. Tuttavia, non mancarono alcune voci fuori dal coro, la più autorevole senza dubbio quella di Edward Glaeser, il quale, in un articolo di ampia circolazione – “Should the Government Rebuild New Orleans, Or Just Give Residents Checks”? -, mise in dubbio la saggezza di riversare cifre astronomiche in una regione che, già prima dell’inondazione, era avviata a un inesorabile tramonto,
“E’ difficile trovare una città della sunbelt che faccia peggio di New Orleans. Tutte le informazioni in nostro possesso mettono fortemente in dubbio l’affermazione per cui ricostruire New Orleans recherebbe maggiore beneficio ai suoi residenti che elargire un assegno o un voucher potenzialmente trasformativo per le loro vite, magari consentendo loro di spostarsi altrove […] Non ha mai avuto senso pensare di spendere oltre 100 miliardi di dollari in infrastrutture per un posto che ha perso da molto tempo la propria ragion d’essere economica”.
La distinzione fondamentale è quella tra New Orleans e i suoi abitanti. Non sono la medesima cosa: aiutare gli uni non necessariamente implica aiutare l’altra e, anzi, allocare risorse per ricostruire in grande stile la città potrebbe ben andare contro l’interesse dei cittadini stessi.
Difficile, dopo aver letto gli estratti precedenti ed essersi confrontati con tali riflessioni, non pensare al Mezzogiorno italiano: un’area scarsamente produttiva, dove milioni di persone restano prigioniere di un contesto socio-economico che non permette loro di conseguire ciò che altrove sarebbe invece ampiamente a portata. Un caso piuttosto chiaro di “misallocation of society’s workforce”.
Naturalmente, sappiamo tutti che, nel corso dei decenni, in molti hanno scelto di andarsene, ma appunto si tratterebbe di prendere atto di un fenomeno non reversibile e mutare infine prospettiva. L’esodo è avvenuto (ed avviene) sullo sfondo di impegni politici che seguitano a propinarci la narrativa per cui un giorno non lontano, se solo verrà fatto questo o quello, tutto cambierà e il Sud diverrà chissà quale centro propulsivo per l’intero paese. Realisticamente, ciò non accadrà mai, non in un orizzonte temporale ragionevole. Perché, allora, non provare a cambiarlo il discorso pubblico sul Sud, perché non abbandonare i grandi piani, le illusioni forse un tempo confortanti, ma ora sempre più dolorose, e riconoscere il disastro che per l’Italia comporta il rinunciare, di fatto, alle menti e alle braccia dei meridionali?
Il quadro è noto, l’indagine Svimez ce lo ha ricordato ancora una volta poche settimane fa,
“Un Paese diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell’arretramento: nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%); il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 15 anni fa; negli anni di crisi 2008-2014 i consumi delle famiglie meridionali sono crollati quasi del 13% e gli investimenti nell’industria in senso stretto addirittura del 59%.”
In cosa tutto ciò sarebbe diverso dalla situazione di New Orleans, se una persona su tre è a rischio povertà? Un presagio fosco che attraversa un po’ tutte le metriche note, a cominciare dal numero di occupati, in caduta libera,
che porta ad una fuga costante, soprattutto dei giovani,
e prefigura un declino demografico con pochi eguali,
«Il Sud sarà interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%»
Possiamo continuare a subire in modo disordinato processi che non saremo comunque in grado di arrestare o possiamo provare a governarli con lungimiranza, destinandovi adeguate risorse, invece di promettere (spesso a vanvera, peraltro) di incanalarle là dove speranza palesemente non c’è.
Il Nord, con il suo ingente differenziale di produttività, appare il naturale punto di approdo per la forza lavoro meridionale,
Buona parte degli studi summenzionati si interroga proprio su come favorire centri urbani “più densi”, e suggerisce che, seppur il Settentrione abbia una densità di popolazione relativamente alta, potrebbe facilmente accomodare i nuovi arrivi – per esempio puntando maggiormente su edifici high-rise. Approntare i necessari investimenti abitativi, favorire la mobilità e il mercato degli affitti… le azioni possibili – volte anche a mitigare alcuni dei timori e delle resistenze emerse in occasione del recente trasferimento di docenti da sud a nord – sono molte ed andrebbero discusse nel dettaglio. Soprattutto, accantonate le grandi opere estemporanee in favore di interventi più light che servirebbero a puntellare il settore turistico, un ottimo punto di partenza sarebbero certamente le innumerevoli situazioni di crisi industriale, la cui tipica gestione, mentre si propone di salvare astrattamente il territorio x o y, tende a rinchiudere i lavoratori in un limbo senza uscita, a renderne obsolete le competenze e chimerica l’occupabilità.
Ci si può raccontare la favola bella di Termini Imerese che risorgerà o dell’Ilva che tornerà a nuova vita (in un mercato globale a dir poco tragico anche per i top player di settore), parcheggiando la forza lavoro in cassa integrazione perenne ed elargendo montagne di sussidi, oppure si può pensare a un diverso impiego delle medesime risorse. A ben vedere, già Alessandro Penati aveva proposto qualcosa di simile, commentando la quintessenza dell’inefficienza allocativa che uccide il futuro, quel Sulcis per cui si calcola che i soldi sperperati in sussidi avrebbero potuto tradursi in decine di migliaia di euro per ogni lavoratore coinvolto, consentendogli di optare per scelte alternative. Gli esempi sono innumerevoli e costituirebbero un facile target per iniziare a ri-orientare la strategia nei confronti del Mezzogiorno, se solo si smettesse di voler credere che la provincia di Carbonia-Iglesias potrà mai avere più fortuna del delta del Mississippi, se solo si squarciasse il velo dell’ipocrisia, l’eterna promessa di un’alba che non arriverà.
Ora, è probabile che molti si sentiranno offesi, insultati, perfino, da quella che potrebbe apparire come una semplice provocazione, ma che lo è solo fino a un certo punto (anche se non è difficile pensare che, allorquando il paese cominciasse finalmente a crescere, i benefici si farebbero percepibili, anche attraverso le rimesse di chi si ritroverebbe ora con un reddito più alto – “Emigrants typically send back money, which can be hugely consequential for their home country’s economy”). Eppure, essa non ha nulla di discriminatorio nei confronti dei meridionali. All’opposto, indica un framework analitico per valorizzarne le capacità, non diversamente da quanto già avviene con successo quando molti di loro si trasferiscono altrove, in Italia o all’estero. Il punto centrale sta nel tentativo di offrire valide opportunità a chi è nato a Catanzaro o a Cosenza, non necessariamente alle città di Catanzaro o di Cosenza. Ai meridionali, non al Mezzogiorno come luogo fisico e spazio socio-economico in sé, alle persone in quanto distinte da uno specifico territorio, qualcosa che negli Stati Uniti, d’altra parte, accade da sempre,”the ability to put them in the right situation”, per citare ancora Moretti.
Così forse non salveremmo il Sud come lo conosciamo oggi, ma daremmo ai suoi abitanti la possibilità di salvarsi e, insieme, di salvare l’Italia. Ed è ciò che conta, alla fine.
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