Costume
Vogliamo le manette (da trent’anni)
Comunque la si pensi sulla questione Sea Watch e sul tema immigrazione, io credo che ciò che è andato in scena al molo di Lampedusa la sera dell’attracco esuli dal caso specifico, e si presti a un serie di riflessioni più generali su alcune dinamiche che entrano continuamente in gioco nel dibattito italiano.
Molto si è detto sugli auguri di stupro a Carola, ennesima dimostrazione del sessismo strisciante che infetta il Paese. Ma, appunto, si è detto molto, e non è utile che mi metta a dire cose già dette, per quanto giuste.
Credo però che poco ci si sia soffermati sul fatto che molti tra i presenti abbiano urlato riferimenti alle manette: nello stesso video in cui si incita allo stupro, si sentono distintamente urla come “vogliamo vedere le manette”, “Vogliamo le manette!”, e persino un accenno di coro “ma-net-te!”. Lo stesso ministro Salvini, nei giorni precedenti, aveva pubblicato un tweet dove scriveva che i parlamentari PD a bordo della Sea Watch “vanno arrestati”.
Proprio questo riferimento alla manette ci fa uscire dal caso Sea Watch: frasi del genere avremmo potuto sentirle per quasi tutti i casi di cronaca, che toccassero o meno la politica (e infatti, le abbiamo davvero sentite per quasi tutti i casi di cronaca, da un qualunque delitto domestico a un qualunque scandalo che coinvolgesse la politica… si pensi, da ultimo, al caso Battisti).
Questo perché, praticamente fin da Tangentopoli, la giustizia in Italia ha sempre una componente mediatica fortissima, e si porta dietro una certa quantità di tifo del tutto scevro dall’oggetto del contendere.
Sono (purtroppo) convinto che le monetine del Raphael non si siano mai fermate. “Vogliamo vedere le manette” è una frase inevitabile in un paese che ha visto trent’anni di processi in tv, di indagini preliminari che facevano titoloni in prima pagina (mentre le relative assoluzioni trovavano al massimo qualche trafiletto in fondo), di partiti e associazioni che spesso hanno confuso il piano giudiziario e quello politico.
La gogna mediatica, qualche sera fa, è diventata a Lampedusa anche gogna concreta, con una donna ammanettata esposta al ludibrio di una folla festante che chiedeva di vedere stupri e manette (viene quasi nostalgia per gli sbudellamenti tra schiavi che avvenivano al Colosseo).
Ma questa gogna rende evidente un’altra tendenza italiana: quella della ricerca del nemico a cui imputare tutto, con l’inevitabile carico di polarizzazione che questo comporta a scapito dell’analisi. Chiaramente, non è una tendenza italiana, e anzi per certi versi è una tendenza naturale: ovunque c’è una comunità ci sarà un estraneo visto come potenzialmente nocivo, ovunque c’è un progetto politico si saranno nemici da indicare come coloro che lavorano contro questo progetto. Se contenuta entro certi limiti, la dinamica rientra nelle normali leggi delle aggregazioni sociali, della politica e della comunicazione.
Ma in Italia la mediaticità della giustizia ha favorito l’accentuazione di tutto questo. Del resto, ogni gogna che si rispetto ha bisogno di un cattivo, e che funga da massima cifra del male. Negli ultimi anni, ogni fase politica italiana ha visto un gruppo sociale identificato come nemico, dai comunisti di Berlusconi ai terroni di Bossi, dai gufi di Renzi ai migranti e alle ONG di Salvini.
Il problema, però, è che come è già successo per innumerevoli temi, la giustizia mediatica e la cultura del capro espiatorio hanno ormai già negato la possibilità di un dibattito serio su come leggere il caso Sea Watch, ma più in generale su come affrontare le migrazioni e di come impostare un confronto sul tema.
Il prossimo step di questa vicenda, probabilmente, sarà commentare il processo a Carola, mentre un possibile dibattito laico sul tema dell’immigrazione viene escluso definitivamente.
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