Geopolitica
Viaggio alla fine dell’Europa, I – Atene, Viktoria
Fare un viaggio in Grecia, oggi, è fare un viaggio alla fine dell’Europa. Immaginate un luogo come porta Genova a Milano, o come, a Roma, una qualsiasi piazza di Testaccio. Un luogo, insomma, vicino al centro ma non troppo. Che abbia un poco di verde nel mezzo, e una stazione del metró. Immaginatelo pieno di tende, per mesi. Immaginate bambini che giocano, famiglie dall’aria stanca. Immaginate anche l’odore che posse avere, la piazza, con circa duecento persone, in media, che vivano in quel posto nei mesi più caldi, senza acqua, docce, né soprattutto bagni.
Ho girato un video, per dare un’idea. Purtroppo non è di buona qualità, ma dovevo fare finta di nulla.
Ecco, questa è la piazza della stazione del metró Viktoria, vicina alla centralissima Omonia, nell’Atene del 2015. Qui quasi tutti sono profughi afgani, che arrivano ad Atene e cercano un modo di passare i confini verso il resto d’Europa. Vengono per la maggior parte da Mitilene, Lesvos, con la nave. Sono famiglie, ci sono tantissimi bambini che giocano in mezzo alla piazza, si rincorrono e strepitano. Vanno tutti verso gli stati più a nord.
Provo a parlare con una famiglia, un uomo due donne, e due bambini, tutti seduti sul marciapiede a lato della piazza. No English, solo Farsi, persiano. In qualche modo riusciamo a comunicare e scambiare due parole. Dicono che vogliono andare in Germania, e che aspettano i permessi per potersi muovere. Loro sono qui da una settimana. Non è chiaro quanto debbano aspettare, né chi gli darà le carte necessarie.
Due cose saltano all’occhio: regolarmente, ogni due minuti, cittadini ateniesi passano e lasciano pane, acqua, prodotti vari all’una o all’altra tenda. L’altra è l’assoluta tranquillità del tutto: la polizia controlla a grande distanza, le famiglie, gli uomini soprattutto siedono sotto le tende. Non succede niente, insomma, non si vede nessuno di Chrisí Avgí, nessuno dei greci che passano in mezzo alla piazza si scandalizza, anzi. Chi può aiuta, regala appunto qualche soldo, viveri o vestiti.
Non c’è traccia di alcuna organizzazione umanitaria, né delle Nazionu Unite, ONG etc. Giusto due poliziotti siedono tranquilli sulle loro moto, ad un certo punto arrivano due spazzini a pulire un po’: questa la presenza dello stato Greco, quindi dell’Europa.
Guardo la popolazione della piazza, che sta seduta, parla, fapiccoli scambi con i negozi e i bar ai margini. Mi siedo in uno dei bar ordino un caffè. Sono seduto a sei metri dalla tenda più vicina, con una famiglia che ora mangia. La cameriera mi racconta che i profughi sono qui dall’inizio dell’estate, e che non è mai successo nulla dei tanti possibili disordini che si potrebbero immaginare. Un volta, mi dice, faceva una pausa, ha lasciato le sue sigarette su un tavolo, e non le ha più trovate. Ma nulla di più.
Un rappresentante di SYRIZA mi raccontava nei giorni scorsi che i profughi spesso sono dirottati qui da personaggi invisibili (nel senso che non li ho visti, e che nessuno sa inquadrare precisamente), che li spaventano e dicono loro di non andare nel campo organizzato ad Eleonas (di cui scriverò). Li spaventano dicendo loro che quel campo è in realtà una prigione. Si farebbero pagare il cibo, o altro. La verità è difficile da valutare. Quello che è certo, è l’assoluta assenza di qualsiasi istituzione; la tranquillità della scena non ne fa sentire la mancanza.
Pago il mio caffè, e lascio il bar, pensando: Fare un viaggio in Grecia, oggi, è fare un viaggio alla fine dell’Europa. Lá dove l’Europa finisce, o, per chi arriva, comincia. E lá dove l’Europa, lo stato di uno dei suoi paesi membri, è praticamente assente. E dove sembra finita l’idea di un unione di Stati nazionali in grado di dare risposte comuni a problemi che certo li riguardano tutti.
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