Immigrazione
“Vi racconto il dolore per la nostra Ucraina mentre abbracciamo i vostri vecchi”
Siamo ben oltre i 30 giorni di guerra in Ucraina, vicino a me e con me hanno lavorato e lavorano persone nate in quel Paese, persone, che da molto tempo hanno cercato di farsi spazio in Italia, vivendo per anni una condizione di clandestini. Oggi fortunatamente possono contare su un lavoro fisso, una casa e sul ricongiungimento con la propria famiglia. Un percorso difficile tortuoso e ricco di episodi tragici. La conoscenza con una di queste persone mi consente di farmi raccontare la sua storia. Non parliamo della guerra dove Irina (nome di fantasia) mantiene un certo riserbo, ma non si risparmia nel raccontarmi la sua storia dall’inizio, quando arriva in Italia ancora minorenne.
A 17 anni (oggi ne ho 44) il mio desiderio era venire in Italia, da noi c’era il mito del vostro Paese, molti ne parlavano bene, da noi non c’erano possibilità di lavoro e io volevo essere indipendente, così decisi di provarci. Da clandestina vivevo da conoscenti del mio Paese, arrivati qui prima di me, ma non era facile trovare lavoro, poi trovai un’occupazione come badante, ma c’era il problema della lingua. Mi occupavo di una signora di 90 anni che fortunatamente parlava poco, viveva con il figlio che mi aiutava con la lingua. La signora mi chiamava “cara” ma io rispondevo: non mi chiamo “cara” mi chiamo Irina, questo per farti capire il mio livello di conoscenza della vostra lingua. Qui sono rimasta solo un mese, poi la signora è mancata. Da noi quando una persona muore c’è l’usanza di fare la “veglia” i familiari non dormono, le luci restano accese anche di notte, le persone vengono a fare visita al defunto. Restai stupita quando appresi che la salma veniva chiusa in una stanza da sola a luci spente e si andava a dormire in attesa del funerale del giorno dopo. Non mi fu possibile aiutare a vestire la signora, io l’avrei fatto volentieri, lei mi aveva sempre trattata bene, la vestirono con abiti usati non “belli” da noi non è così, la persona deve indossare abiti nuovi, scarpe belle perché “di là” ti devi presentare davanti a Dio e devi essere in ordine. Il figlio poi mi ha aiutata a trovare un impiego in un bar di suoi conoscenti. Lì è stato difficile, oltre ai problemi della lingua, non sapevo fare nulla, nemmeno un caffè, sbagliavo tutto. Mi chiedevano piatti e portavo padelle, mi chiedevano tazzine e portavo bicchieri. Questo era un lavoro temporaneo, durato fino a quando la moglie del titolare ha partorito una bambina. Mi è servito molto per imparare meglio la lingua, loro sono stati sempre onesti e gentili con me, pensa che quando servivo ai tavoli, qualche cliente mi diceva “mangia” e mi dava dei soldi, io non capivo perché mi dessero dei soldi per mangiare, ero già pagata, e il titolare mi spiegò che si trattava di mancia, cioè soldi che erano miei e non c’entravano con il mio stipendio, io però non li volevo perché non mi sembrava giusto, mi sembrava di rubare e li mettevo nella cassa, quando venivo pagata il titolare mi aggiungeva anche tutte le mance che avevo ricevuto. Dopo qualche mese sono ritornata a fare la badante da una signora di 90 anni. Era una signora molto brava, non aveva mai avuto bisogno di una badante e io non avevo molta esperienza, avendolo fatto solo per un mese. In pratica eravamo entrambe alla prima esperienza, dovevo occuparmi anche della sua igiene totale, perché aveva il femore fratturato e nel momento del bagno io mi vergognavo di lei e lei si vergognava di me. Mi ha aiutato tantissimo ad uscire da questo imbarazzo e da qui è subentrata una fiducia reciproca, tanto che quando ha avuto bisogno di fare una terapia che prevedeva delle iniezioni quotidiane, ha espressamente voluto che fossi io a farle dopo avermi fatto fare un piccolo corso. Le ho proposto di fare un po’ di ginnastica perché restava sempre a letto, all’inizio mi diceva “falla te io ti guardo tanto oramai non mi alzerò più da questo letto” io sono cocciuta e piano piano ha iniziato anche lei a fare ginnastica da seduta ma sempre sul letto, finché un giorno mi ha chiesto di alzarsi, le ho comperato un “girello” e abbiamo iniziato a camminare in casa e poi con il tempo anche a passeggiare all’esterno con il supporto del solo bastone. Si era creata una forte complicità tra noi. Io però dovevo tornare in Ucraina e non sapevo per quanto, con i familiari della signora abbiamo trovato una ragazza pakistana che doveva sostituirmi, lei era molto giovane e con abitudini diverse dalle nostre, pensa che quando faceva la doccia alla signora non si toglieva nemmeno i vestiti, non so se per pudore o forse perché i suoi genitori non volevano nel rispetto di una loro usanza; non l’ho mai capito. L’affetto con la signora è rimasto per lungo tempo, anche se eravamo oramai lontane, ci scambiavamo spesso lettere e cartoline, poi da un certo punto non ho mai più ricevuto risposta, penso che alla fine sia morta, ho sofferto a lungo per questo.
Assistere un anziano, un compito solo apparentemente semplice, ma che si rivela in realtà delicato e difficile. Per chi arriva in Italia spesso è la prima frontiera, il primo impiego, il problema della lingua, le difficoltà nell’entrare nella routine, nelle abitudini, rappresentano i primi grandi ostacoli. Gradatamente dell’anziano se ne conosce la vita, i bisogni fisici, quelli emotivi, condividendo la quotidianità, si crea sempre più vicinanza e quindi l’affetto cresce. A volte l’anziano riversa nel rapporto affettivo con la persona che lo assiste rancori, delusioni, oltre al mancato soddisfacimento di bisogni affettivi da parte di familiari poco attenti o poco presenti. Una figura importante, che lo sarà nel corso degli anni ancora di più, purtroppo spesso sottopagata e con contratti irregolari.
L’affetto che si crea tra badante e assistito è inevitabile, continua Irene… In Ucraina sono rimasta 3 anni, mi sono sposata e sono rimasta incinta. Mio marito a sua volta è venuto in Italia, è nato il primo figlio maschio e ci servivano soldi. All’inizio anche lui faticava a trovare lavoro, io qui lavoravo di notte per mantenere il bambino, ma le risorse non bastavano mai, certo lo stato mi dava qualcosa, ma bastava solamente per comperare i pannolini e poco altro. Ho lasciato mio figlio di un anno ai miei genitori e sono ritornata in Italia. In quel periodo nel 2002 era molto problematico passare le frontiere, potevi farlo pagando soldi per un visto falso, costava circa 2.000€ . Per quella cifra le persone ti preparavano i documenti e organizzavano il viaggio, spiegandoti quando partire, quali frontiere passare e chi dovevi incontrare durante le tappe, sempre persone diverse, con macchine diverse. In una di queste tappe sono stata portata in una specie di rifugio di zingari dove c’erano molte persone, alcune di queste mi riferivano che il viaggio sarebbe proseguito attraversando boschi e attraversando corsi d’acqua. Il ragazzo che mi aveva accompagnato fin lì e che poi se ne era andato mi aveva avvisato: “molte persone ti chiederanno di andare con loro, tu non ascoltarle, aspetta solo che io ritorni, non so quando ma ritornerò e proseguiremo il viaggio, mi raccomando non dare loro retta, non andare con nessuno, aspettami”. In effetti ogni giorno arrivavano persone diverse che indicavano qualcuno di noi invitandole a seguirli, un giorno due donne, un altro tre uomini, un altro ancora una famiglia intera, non so con quale criterio scegliessero le persone. In questo rifugio eravamo in molti e c’era un solo bagno, dormivamo tutti per terra, c’erano solo pochi materassi e la maggior parte di noi dormiva sul pavimento utilizzando vestiti come cuscini. Mi ricordo di una donna che è partita ed è tornata dopo pochi giorni in lacrime, perché non era riuscita a passare percorrendo una stradina indicata attraverso un bosco. È stata fermata da militari che non l’hanno fatta passare, la scelta era tornare indietro oppure venire arrestata. Dopo alcuni giorni il ragazzo è tornato e con alcuni di noi, in pullman, siamo arrivati a Milano a Cascina Gobba. Lì eravamo in tanti ucraini e sapevo che in quel posto avrei ritrovato mio marito, che si arrangiava facendo qualche lavoretto, non aveva una casa perché non aveva i documenti nè un lavoro fisso, quindi dormiva “dai Pakistani”, che avevano una casa a Cesano Maderno e affittavano i posti letto. Prima viveva nelle baracche o nelle fabbriche abbandonate ma spesso arrivavano i controlli ed era molto rischioso, se ti trovavano ti portavano in caserma e ti veniva consegnato un foglio di via che ti obbligava a lasciare l’Italia entro breve tempo. Nessuno però rispettava la scadenza perché le persone venivano qui per trovare lavoro e restavano facendo attenzione a non venire nuovamente scoperte, cosa che capitava e dopo una o due notti in caserma la cosa ricominciava da capo. Fino a quando venivi espulso e costretto a ritornare in Ucraina con un documento, che ti vietava di ritornare in Italia per un certo periodo. Questo è quello che è successo a mio marito. Io sono rimasta sola e quello è stato il periodo più duro, perché non hai lavoro, non hai da mangiare, non sai dove dormire e pensi alla tua famiglia lontana, della quale non hai notizie. Dormivo nei parcheggi, nei parchi per bambini, alcuni dormivano sugli alberi per paura di essere scoperti. Anche quando trovavi qualche lavoretto, il problema di dove dormire restava, avevi con te una piccola borsa con dentro poche cose per cambiarti, era poco ma era tutto quello che avevi. Non c’era la possibilità di lavare i vestiti, per cui ogni tanto si andava alla Caritas nella speranza di averne altri. Anche lavarsi era un problema, alcune di noi si “imbucavano” per fare una doccia a casa di qualche famiglia dove una nostra conoscente prestava servizio.
Una storia come tante, le difficoltà per uscire dal proprio Paese, lo sfruttamento, la richiesta di soldi senza la minima garanzia del buon esito del viaggio, lungo tortuoso, non privo di rischi, la possibilità di venire scoperti e di tornare indietro, dopo aver fatto sacrifici per racimolare il denaro per la partenza. I fortunati arrivano a destinazione, ma è solo la prima parte di un percorso iniziato da fuorilegge e continuato nella condizione di clandestini.
La cosa brutta è quando succede qualcosa alla tua famiglia in Ucraina e tu non puoi tornare subito. Mio padre si è ammalato di tumore e poi è morto, sapevo durante il viaggio di ritorno che non l’avrei più rivisto vivo. In quel periodo sono restata in Ucraina e ho avuto il secondo figlio, prima ancora che lui compisse un anno sono tornata di nuovo, in Italia. Il problema era non possedere il permesso di soggiorno che ti avrebbe consentito, oltre a cercare una casa, di tornare nel tuo Paese in caso di bisogno, senza aver la paura di non poter più tornare in Italia, spendendo di nuovo soldi per documenti falsi, per un visto turistico di soli 10 giorni. Ho affrontato di nuovo questo calvario e grazie ad un visto turistico per Budapest sono arrivata nuovamente in Italia. Dopo tempo ho trovato lavoro nelle case per fare le pulizie, non volevo fare più la badante, mi affezionavo molto alle persone che curavo e ogni volta sapevo che il mio rapporto con loro aveva una scadenza ma non sapevo quando, solo Dio lo sapeva, è un pensiero che non ti abbandona mai e io soffrivo molto per questo. Quindi facevo le pulizie di giorno, solo di notte la badante per 8-10 ore e al sabato e alla domenica di nuovo le pulizie però per un albergo. La mia vita era piena, ma pensavo continuamente al mio bambino “io adesso sto mangiando un gelato, ma lui cosa starà facendo, lo potrà mangiare anche lui?”. Ho sempre trovato in Italia delle brave persone, sempre gentili con me, una famiglia poi mi ha aiutata a fare le pratiche per richiedere il ricongiungimento familiare, visto che oramai avevo documenti e un lavoro che mi consentivano di farlo. Il reddito però non era sufficiente e i parenti della persona anziana che assistevo mi hanno aiutata a raggiungere la soglia di reddito che mi consentiva, per la legge Italiana, di mantenere la famiglia. Mi hanno aiutato a trovare per pochi soldi da loro conoscenti una casa in affitto e così sono riuscita a far venire i miei bambini con me che allora avevano 8 e 12 anni. Mio marito invece stava ancora in Ucraina. La felicità era grande anche se lui mi mancava, era difficile stare tutto il giorno al lavoro sapendo che i bambini restavano da soli. La scuola poi mi ha aiutato molto, perché i bambini imparavano e si inserivano nella vostra comunità, il problema a volte era andarli a prendere, quando si poteva mi facevo aiutare da una mia amica, ma a volte il più piccolo restava molto tempo davanti alla scuola perché suo fratello più grande non poteva prenderlo, la cosa era consentita solo al genitore o comunque ad una persona autorizzata e maggiorenne, la scuola conosceva la mia situazione, qualcuno mi aspettava spesso fuori orario. Con il lavoro e l’aiuto di questa famiglia, sono riuscita a far venire in Italia anche mio marito, all’inizio a mio carico, ma finalmente con documenti veri. Dopo qualche tempo anche lui è riuscito a trovare un impiego come portiere di notte in un albergo e di giorno faceva il muratore. Gli anni sono passati sereni anche se duri, oggi siamo noi a suo carico, i miei figli hanno 17 e 21 anni, il grande lavora e la femmina più giovane invece studia, vorrebbe continuare, il suo sogno è fare l’avvocato. Sono felice per loro, perché sono cresciuti con la consapevolezza che nessuno ti regala nulla e quello che hai te lo devi guadagnare a volte con grandi sacrifici.
Non poteva mancare nel racconto la domanda di come la famiglia, i parenti i conoscenti, stavano vivendo questo periodo di guerra.
I nostri parenti, mia madre, i fratelli, i cognati e i nipoti vivono ai confini con la Romania, in una zona fortunatamente per ora non coinvolta nel conflitto. Io facendomi aiutare anche da famiglie italiane mi sono offerta di far venire qui in Italia donne e bambini, ma loro non hanno voluto, preferiscono aspettare i loro uomini partiti per la guerra, non vogliono lasciare il Paese, vogliono lottare per l’Ucraina, anche le donne sono disposte ad andare in guerra per difendere il loro Paese. Io ho bei ricordi della mia infanzia per quanto riguarda il rapporto con i Russi. Avevo parenti che venivano a trovarci, non ci sono stati mai problemi eravamo due Paesi diversi, lontani ma uniti, amici, per noi il russo era la seconda lingua. Io sarei rimasta, come molti, ma il problema erano i soldi, pensa che io ho visitato poco l’Ucraina, conosco oramai più l’Italia, spostarsi costava e i pochi soldi che c’erano venivano risparmiati per venire nel vostro Paese a cui devo tanto.
Questa è la storia di Irina dall’Ucraina, ma potrebbe essere la storia di qualsiasi migrante, profugo che lascia il suo Paese, magari afflitto da una guerra, per trovare “fortuna” nel nostro Bel Paese.
Foto di pvproductions by freepik
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