Immigrazione

Stranieri a noi stessi: una guerra fra poveri

1 Settembre 2017

I recenti fatti avvenuti a Roma, le notizie quotidiane che, dall’estrema periferia del Paese ai grandi centri urbani, testimoniano una crescente tensione fra cittadini italiani e stranieri non possono non suonare come un campanello d’allarme per tutti coloro che, a vario titolo, s’interessano di sicurezza e – in senso più ampio – di benessere della popolazione. Interventi di restrizione degli arrivi, ampliamento delle misure di sicurezza, norme volte a tutelare i diritti “prima” dei cittadini italiani e “poi” di quelli stranieri sono oggi all’ordine del giorno. Pochi però vanno oltre e provano a domandarsi quale possa essere l’origine di questo crescente disagio sociale, che non parte tanto dalle coste africane del Mediterraneo quanto da casa nostra. Un passo indietro, anzi dentro, potrebbe giovare.

Interno. Sede di un pubblico ufficio di servizi alla persona di una media cittadina del nord italia. Estate, fa caldo, le code in sala d’attesa, come spesso accade, sono lunghe ed estenuanti. Le persone in fila parlano dei problemi che li hanno portati lì in una calda mattina di agosto. Ogni tanto scoppia una piccola lite per le “precedenze” e tocca alla guardia giurata calmare gli animi. In coda, da più di un’ora, c’è anche una signora con due bambini piccoli che, dopo i primi momenti di apparente tranquillità, fanno quello che ciascuno di noi vorrebbe fare superata la soglia psicologica di attesa, solo che loro lo fanno davvero: piangono e urlano. La donna cerca di calmarli e distrarli, ma in nessun modo cerca di superare la fila o di ottenere uno “sconto di pena”. Dopo una decina di minuti la guardia giurata di avvicina e le indica uno sportello dicendo che può andare subito dato che è sola con due bambini evidentemente a disagio per il caldo. Un atto di gentilezza e intelligenza emotiva, che supplisce l’assenza di una corsia preferenziale o di uno luogo di attesa più accogliente e adatto anche alla permanenza di bambini. La donna però è velata e, immediatamente, nella sala d’aspetto, scattano i commenti di stampo razzista, perché “Loro hanno tutti i vantaggi”, “Loro fanno un sacco di figli e poi lo Stato italiano li deve mantenere”, “Loro arrivano e hanno tutto: assistenza, servizi…E io qui lavoro da una vita e sono in coda per il sussidio”. Il clima è teso e tutto è nato da una mamma alla quale è stato semplicemente riconosciuto il “diritto” a non far morire di caldo i suoi bambini. Senza peraltro che avesse chiesto nulla in prima persona.

Nessuno, in quella sala d’aspetto, si è lamentato del fatto che in un ufficio pubblico con accesso di utenza anziana, diversamente abile, famiglie con bambini piccoli, non fosse attivo, almeno in una sala, l’impianto di condizionamento. Nessuno ha pensato alla fatica di quegli impiegati che, in un clima tropicale, passavano la giornata a risolvere i pesanti problemi di chi arrivava chiedendo supporto. Nessuno si è lamentato del fatto che, nel 2017, per attivare una prestazione dovuta e per la quale basterebbe un “click”, si rendessero necessarie mille procedure burocratiche e che il personale fosse sottodimensionato rispetto alle esigenze. Nessuno ha fatto notare che, dopo aver “lavorato una vita”, il sussidio di disoccupazione o integrativo avrebbe dovuto essere riconosciuto subito – come in altri paesi d’Europa – permettendo una dignitosa sopravvivenza, e non dopo le verifiche, magari a mesi dalla richiesta.

Nessuno si è fermato a riflettere perché tutti erano impegnati a prendersela con una mamma alla quale era stato concesso di recarsi con un po’ di anticipo allo sportello.

Di queste storie probabilmente ne potremmo raccontare molte: dalla casa popolare all’assegno familiare, dalla graduatoria per l’accesso al nido a quella per la casa di riposo. Storie di difficoltà quotidiana e di risposte mancanti o carenti da parte delle istituzioni, ma – per portare l’analisi ancora più in profondità – da parte di un sistema che, dall’imprenditoria privata al settore pubblico ha progressivamente smantellato, ancor prima che dal punto di vista pratico dal punto di vista culturale, il sostegno alle politiche sociali. Figlia degli anni in cui chi non ce la faceva ad avere successo era considerato “pigro” e dell’epoca in cui tutti potevano ottenere tutto, bastava volerlo, la nostra quotidianità mostra tutte le falle che la legge del più forte finisce col provocare nel tessuto sociale.

Un tempo il proletariato operaio era guardato con diffidenza e sospetto dalla media classe borghese, che alternava slanci umanitari a un “si aggiustino e imparino a fare meno figli” liquidante. Oggi, una “classe inconsapevole” (e molto ci sarebbe da discutere sui rischi che una completa inconsapevolezza sociale può provocare dal punto di vista della frammentazione individualista) attacca a testa bassa lo straniero, colpevole di aver aggiunto un competitore alla guerra fra poveri che, ormai da anni, si gioca nel nostro paese.

Ci si dimentica così di rivendicare i propri diritti – come lavoratori, come pensionati, come disoccupati, come famiglie – perché troppo impegnati nel cercare di ridurre quelli di altri. Come se una restrizione dei possibili diritti esigibili fosse garanzia che questi ultimi saranno sicuramente garantiti.

Come se, su una barca che affonda, fosse ancora possibile pensare alla distinzione fra prima e terza classe, dimenticando che su quella barca ci siamo tutti. E intanto le barche affondano davvero: in mezzo al mediterraneo e a casa nostra, dove a fare la fila per un pasto caldo sono sempre più cittadini italiani. Le barche affondano nell’inconsapevolezza delle cause e con la colpevolezza di chi, quotidianamente, si nasconde dietro allo straniero per non ammettere il fallimento di un percorso politico ed economico autodistruttivo.

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