Immigrazione

Aboubakar Soumahoro e sindacati che non fanno i sindacati

24 Agosto 2020

Si è cominciato a parlare sempre più spesso di lui due anni fa, quando i suoi interventi in ricordo dell’amico Soumaila Sacko hanno fatto sì che quell’omicidio non fosse ricordato come l’ennessimo episodio di razzismo quotidiano, ma fosse un punto di non ritorno. Sacko era stato ucciso da una fucilata mentre in una fornace abbandonata cercava pezzi di lamiera per aiutare due amici a costruire una baracca. In quella vicenda c’erano tutti gli elementi paradigmatici delle storie di malaffare: i migranti sfruttati nelle campagne perché ricattabili, l’omicida che considera il territorio una sua proprietà privata, il luogo dell’assassinio sotto sequestro da più di dieci anni perché usato come discarica di tonnellate di rifiuti pericolosi. E per quanto avesse un regolare permesso di soggiorno e fosse impegnato come sindacalista, Sacko era pur sempre condannato all’invisibilità dai Decreti Sicurezza voluti da Salvini oggi ancora in vigore.

È da quel momento in poi che Aboubakar Soumahoro ha intensificato la sua presenza mediatica. Il processo all’omicida Antonio Pontoriero non si è ancora chiuso, ma anche quando questo accadrà quella di Sacko continuerà ad essere per molti un’esistenza di serie B, per la quale nessuna carica istituzionale è disposta a garantire giustizia. Soumahoro intanto è diventato un personaggio pubblico. Ha dibattuto con figure politiche, ha preso parte a programmi televisivi, ha usato i social meglio di tanti altri e ha stupito con il suo eloquio chi è convinto che un migrante parlerà sempre come la schiava di Via col vento («è persino laureato!»). In molti hanno pensato a lui come a una figura in grado di traghettare la sinistra italiana verso una nuova fase, mentre la destra gli ha riversato contro il suo campionario standard di insulti razzisti intrisi di colonialismo. Ha pubblicato un libro, tenuto una rubrica sull’Espresso e un blog sull’Huffington Post. Si è rivelato un ottimo comunicatore, ed è probabilmente questo a dare fastidio.

Ha creato campagne, come quando lo scorso maggio ha lanciato l’hashtag #fermiamoicarrelli con cui ha invitato i consumatori (e le consumatrici, perché parla il linguaggio di genere) a non fare la spesa per un giorno, ma soprattutto a riflettere su come la filiera agroalimentare sfrutti ed inquini condizionando la vita di tante persone. Ha sempre detto che la regolarizzazione dei migranti non deve mettere al centro gli interessi di mercato, ossia il profitto, bensì gli esseri umani, anche dopo la diretta con lacrime della Ministra Teresa Bellanova (quella del Jobs Act, quella pro-abolizione dell’articolo 18) che spacciava la sua cosiddetta regolarizzazione come una specie di missione umanitaria.

In giugno si è incatenato a Villa Pamphili, dove erano in corso gli Stati Generali dell’Economia, quell’inutile passerella voluta da Conte per il dopo-lockdown, e ha strappato al premier la promessa di un impegno concreto in termini di consumo etico, politiche migratorie e del lavoro. Poi in luglio ha indetto gli Stati Popolari, avvicinandosi più di chiunque altro al miraggio intersezionale che la sedicente sinistra nemmeno vede: c’erano tutti, dai braccianti alle Sardine, dai disoccupati agli ambientalisti, dalle famiglie senza casa a Non Una di Meno, dagli intermittenti dello spettacolo alle associazioni impegnate nella solidarietà, dai facchini a Mediterranea.

E così, esponendosi più che mai e riuscendo dove altri non erano riusciti (ma perché, ci avevano davvero provato?), Soumahoro ha fatto incazzare un sacco di gente a destra quanto a sinistra. Ma ormai è così popolare che se chiede un incontro con la Ministra dell’Interno Lamorgese (quella che ha taciuto sulle morti nei CPR, per dire) per parlare della mancanza di sicurezza nei campi lo ottiene, accompagnato dal sindaco di Milano Beppe Sala. Forse quella di dialogare con tutti è una sua fissazione e certi incontri sono discutibili, ma chi altro negli ultimi anni ha saputo portare al centro del discorso pubblico il tema del lavoro, del lavoro di tutti?

Ed ecco che il 27 luglio, tre settimane dopo Gli Stati Popolari, Soumahoro lascia l’USB, di cui era l’unico componente dell’esecutivo con un nome non italiano. L’USB dichiara che “da tempo la sua internità ai processi decisionali collettivi del sindacato era andata scemando e sempre più il suo impegno si era realizzato attraverso altre forme”. La sua risposta arriva dopo due settimane con l’annuncio della nascita della Lega dei Braccianti, in cui sono loro stessi ad autorappresentarsi. Dovremmo congratularci tutti se questo fosse il luogo in cui le richieste di lavoratori umiliati prendono forma, ma ai sindacati non sta bene: all’USB dà fastidio il fatto che l’attivista l’abbia scaricata proprio adesso che il suo nome è sulla bocca di tutti, mentre la CGIL non tollera i continui richiami che Soumahoro fa alla figura di Giuseppe Di Vittorio, bracciante e storico sindacalista della CGIL che fu anche deputato del PCI, da lui considerato un faro per lotte di giustizia sociale, tanto da intitolargli la Casa dei diritti e della dignità costruita dai migranti a Borgo Mezzanone, uno dei più grandi insediamenti dei braccianti, nel foggiano. Quando parla di possibili alleanze, non a caso, Soumahoro parla di «contadini, agricoltori e consumatori» e non nomina alcuna sigla sindacale.

Uno stizzito Giovanni Mininni, segretario di Flai Cgil, allora dichiara: «Mi sembra che Abou cerchi di appropriarsi di Di Vittorio. Di Vittorio non è di proprietà della Cgil, è di tutto il movimento sindacale e di tutto il mondo che si batte per il riscatto sociale. Questa cosa comincia a diventare stucchevole. Aboubakar parla della “Lega dei braccianti” come di un’organizzazione inedita. Non è vero: le “leghe bracciantili”, soprattutto al Sud, esistono ancora e sono articolazioni della Cgil. Si appropria di una cosa non sua e di una storia che dimostra di non conoscere. È appoggiato da pseudo intellettuali radical chic che dei problemi dei lavoratori si fanno belli per poche ore e poi se ne dimenticano». Ma nonostante questo Mininni propone: «Se Aboubakar ha tanta stima di Di Vittorio, entri nella Cgil, lo accoglieremmo volentieri». Mininni insomma vuole far credere che dopo aver descritto Soumahoro come un ignorante (e chiamandolo per nome, come si fa solo con i migranti), lui gli correrà incontro.

Ma cosa potrà trovare di desiderabile Soumahoro in un sindacato che ha ormai perso contatto con molte delle realtà che invece lui ha saputo finalmente coinvolgere? Quel sindacato, giusto per fare alcuni esempi, che non ha saputo imporsi su Confindustria e farsi ascoltare dal Governo quando bisognava chiudere immediatamente tutti i luoghi di lavoro, senza se e senza ma, per evitare l’epidemia, e chiedere un vero reddito di continuità fino ad ottenerlo? Che ha rifiutato di partecipare allo sciopero femminista indetto da Non Una di Meno per il 9 marzo (poi vietato proprio a causa della pandemia) e che ha perso 285 mila iscritti negli ultimi anni? Quello che ha aderito alla campagna per lo Ius Soli, ma non l’ha mai fatta davvero propria? Ma davvero di fronte a persone sfruttate che vivono nella miseria si trova il tempo di giudicare un omologo per le sue citazioni, peraltro appropriate? Perché non è Soumahoro a citare Di Vittorio a sproposito, ma la CGIL a non essere più quella di Di Vittorio.

Quella di oggi è una CGIL sempre più simile al Partito Democratico, e non è un caso che queste stesse istanze manchino totalmente nella lettera che il segretario del PD Nicola Zingaretti ha inviato a La Stampa qualche giorno fa. La verità è che le richieste avanzate da Aboubakar Soumahoro e le varie realtà da lui chiamate agli Stati Popolari fanno insieme il miglior programma politico che l’Italia possa scegliersi per uscire da una crisi che è anche sociale. E se oggi venisse fatto un sondaggio su chi nella società civile è visto come un buon leader il suo nome non mancherebbe, grazie all’innata capacità di unire il discorso umanitario alla chiarezza delle proposte politiche. È proprio con persone come lui che CGIL dovrebbe imparare a dialogare, condividendone gli obiettivi e senza temerlo.

 

 

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