Immigrazione
Se per essere accolto devi essere morto
(foto di copertina di Massimiliano Sestini, Word Press Photo 2015 General News, second prize singles).
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La scorsa notte dodici rifugiate (fra cui una incinta) e i loro figli sono state “respinte” dagli abitanti dei paesi di Goro e Gorino, due piccoli centri del delta del Po ferrarese. Il pullman sul quale viaggiavano è stato fermato da un blocco stradale organizzato dai cittadini che non volevano accogliere, nel loro territorio, i rifugiati. Dopo l’intervento del sindaco di Ferrara, del prefetto, della polizia e dei carabinieri il gruppo è stato “dirottato” su un’altra struttura ospitante. Dopo ore di tensione e di attesa.
Quali che siano state le motivazioni alla base di questa iniziativa apparentemente “partita dal basso”, s’impone un’urgente riflessione su quello che siamo diventati e sul nostro poter essere ancora considerati “umani”.
La cultura della diffidenza e della chiusura nei confronti dello “straniero” e del diverso sembra aver colpito anche un paese come il nostro, figlio della cultura cattolica e di una storia fatta di grandi migrazioni.
In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. (Matteo 25)
Questa vicenda rappresenta solo l’ultimo tassello di una storia di reazione scomposte – civili (o per meglio dire incivili) e politico-istituzionali – all’emergenza migratoria di questi ultimi anni. Di fronte alle storie individuali e collettive di chi si mette in viaggio, a rischio della propria vita e di quella dei propri cari, per scappare da guerra, fame, persecuzioni, non ci poniamo mai le domande corrette. Non ci chiediamo le ragioni di questo dramma, non c’interroghiamo sulle nostre possibili “colpe”, dettate anche soltanto dalla mera indifferenza rispetto a quanto sta avvenendo “altrove”. Badiamo ai confini di casa nostra e ci dimentichiamo che di fronte abbiamo persone che, come noi, a casa loro vorrebbero restare. Ma non possono. Davvero pensiamo che, in presenza di alternative, una madre caricherebbe i suoi figli su un barcone o li costringerebbe a una pericolosa marcia attraverso territori in conflitto? Davvero crediamo che per una donna incinta sia una soluzione “di comodo” affrontare un viaggio della speranza senza certezze e senza alcun tipo di garanzia di riuscita?
Ma spingerei oltre la riflessione. Senza chiamare il causa alcun ragionamento logico o razionale, eventi come quello di ieri mostrano come, per una parte di noi sia diventato impossibile provare empatia, compassione, impossibile immedesimarsi nell’altro. Ci commuoviamo di fronte alla foto di un bambino morto sulle nostre coste, forse proprio perché non ce l’ha fatta ad arrivare. Forse perché a quel punto prevale la pena, che non implica però atti concreti di solidarietà e compassione. Il bambino riverso sulla costa italiana è lo stesso a cui ieri sera è stato detto “qui non ti vogliamo”. Scusaci caro, prova a tornare quando sarai morto.
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