Immigrazione
Quando un lupo ci ricorda chi siamo
Roland SCHIMMELPFENNING, “In un gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo”, Fazi editore pp. 232, Euro 18,00.
È molto comune trovarsi in un teatro qualunque a vedere uno spettacolo la cui drammaturgia è ricavata, certo in modi diversi, da un opera narrativa: si tratti di riduzioni, adattamenti, riscritture, riprese, operazioni più o meno ispirare e/o più o meno libere. Leggendo il romanzo “In un gelido mattino di gennaio all’ inizio del ventunesimo secolo”, di Roland Schimmelpfenning (Fazi Editore, 2019, traduzione di Stefano Jorio, euro 18,00), si ha invece la netta sensazione che il percorso creativo si sia dispiegato in direzione inversa: dal teatro al discorso narrativo.
Ovviamente è possibile che si tratti di una facile suggestione: una interpretazione dovuta al fatto che Schimmelpfenning è uno dei maggiori drammaturghi della scena teatrale contemporanea tedesca ed europea, eppure, a rifletter bene, si tratta di una caratteristica di stile talmente evidente che ha poco senso provare a derubricarla come il riflesso automatico della sua ben più nota e robusta attività di drammaturgo. A dirla in breve, sembra che il processo narrativo si sviluppi da una riflessione relativa alle scene profondamente teatrali che si susseguono prismaticamente nel testo, lasciando al lettore/spettatore il compito di collegarle, interpretarle, stringere i bulloni della struttura. Qualcosa di molto simile si potrebbe dire per la lingua di questo romanzo: scabra, ruvida, martellante, ricorda un po’ alcune tonalità stilistiche di Agota Kristof, ma alleggerendole, senza il dolore sorso o la salvifica cattiveria di quella grande autrice. Ed ecco il soggetto di questo interessante romanzo d’esordio: un lupo, un animale enorme e misterioso “In un gelido mattino di gennaio all’ inizio del ventunesimo secolo”, si muove da est, dalla Polonia e, attraversando il confine, si introduce in Germania e si dirige verso Berlino. Per un lungo periodo si aggira nei sobborghi della capitale tedesca lasciando che cacciatori, fotografi più o meno casuali e giornalisti in cerca di scoop possano avvistarlo, dargli la caccia, incrociarlo casualmente, fotografarlo. Infine scompare. Il lupo è ciò che la psicanalisi definirebbe un elemento “perturbante”: l’altro, l’alterità assoluta che entra nel nostro territorio per aggredirci.
Un’alterità che, rappresentata da un animale, resta irriducibile, indicibile, inafferrabile, temibile, inquietante. Tutti i protagonisti del racconto sono caratterizzati se non da una mancanza, almeno da una debolezza di volontà soggettiva: gli eventi accadono, il male accade senza far troppo rumore, la miseria morale domina la realtà esteriore e interiore, le macerie materiali e spirituali di tempi e desideri che furono ingombrano le vite di tutti senza risolverle e senza alleviarne il dolore. Così si muovono i passi e le vite dei due giovani migranti polacchi Agnieska e Tomasz (il primo ad avvistare il lupo nei pressi di Berlino nel gelo di una notte d’inverno e a fotografarlo), così si aprono le strade e le disavventure di due adolescenti in fuga dalla provincia brandeburghese verso la capitale per cercare un amico perduto, così accade la stralunata partenza di un padre alcolizzato per andare a cercare i due ragazzi e quella di una madre, artista depressa, che vuole ritrovare i luoghi della sua gioventù creativa, così le esistenze di tanti altri personaggi che sono ambigui, inquieti e inquietanti, ma che scompaiono nel grigio e gelido nulla di quel mondo che quasi si rifiuta di venire alla luce e brillare, onusto com’è di speranze deluse e di sogni falliti.
È il paesaggio politico e morale della ex DDR quello che viene rappresentato, la cupa delusione per le troppe promesse mancate: una rappresentazione simbolica che, nella sua desolata potenza riesce a parlarci. Il lupo è ciò che per egoismo e/o cecità politica abbiamo rifiutato di accogliere e integrare, il lupo è la nostra cattiva coscienza che ci rende impauriti e sterili di futuro.
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