Immigrazione

Ue, dall’Italia saranno ricollocati 24mila rifugiati

12 Settembre 2015

(Aggiornamento).  Il Consiglio dei ministri degli affari interni della Ue ha approvato lo schema ricollocamento per 40mila profughi da Italia (24mila) e Grecia (16mila) in due anni, relativo ai richiedenti asilo arrivati fra il 15 agosto 2015 ed il 16 settembre 2017. Inoltre, l’Europa si impegna «a ricollocare altri 120mila» richiedenti asilo, secondo un piano quote che tuttavia non è ancora definitivo, e riserverà una certa flessibilità ai singoli Paesi membri.

È arrivato inoltre l’ok per la fase 2 della missione navale EuNavForMed che prevede l’uso della forza contro gli scafisti nel Mediterraneo: l’operatività è prevista entro i primi di ottobre. Intanto, al confine fra Austria e Germania, si registra un parziale allentamento del blocco dei treni.

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«It’s a matter of humanity», una questione di umanità, chiosava il 9 settembre Jean-Claude Juncker , presidente della Commissione europea, anticipando l’applauso a corredo del pacchetto di proposte per fronteggiare la crisi migratoria. È una questione di confini da salvaguardare, verrebbe da aggiungere analizzando a fondo i testi.

E, a poche ore dal vertice straordinario dei Ministri dell’interno europei, le certezze del lussemburghese vanno sempre più sgretolandosi. La telefonata ricevuta nella mattinata di domenica da parte di Angela Merkel non ha certo aiutato: la città di Monaco è al collasso e il governo tedesco ha disposto la sospensione provvisoria di Schengen intensificando i controlli soprattutto lungo il confine con l’Austria. «Uno shock per il resto dell’Europa», scrive il Guardian, sottolineando che la chiusura dei nove confini del paese più popoloso d’Europa determini automaticamente il fallimento dell’idea alla base degli accordi di Schengen.

Nella giornata dell’ennesimo naufragio a largo delle coste greche, dei 42 migranti nascosti in un camion frigorifero in transito in Austria e alla vigilia dell’entrata in vigore della legge anti-immigrazione ungherese (carcere per chi oltrepassa la recinzione con la Serbia), il fronte del no al piano Juncker è stato irrobustito dalle dichiarazioni di Gabriel Oprea, ministro degli interni romeno, che ha fatto sapere di non voler accettare le quote di accoglienza suggerite da Bruxelles. Sulla stessa linea il governo ceco.

La sfida è più che mai ardua: rivedere l’Agenda europea sull’immigrazione stipulata a maggio, che finora ha creato non pochi malumori in diversi Stati membri. Il più grande fallimento dell’Agenda è stato sicuramente l’aver sottovalutato il flusso verso la Western balkan route, un percorso maledetto caratterizzato da polizia corrotta, scafisti di terra e ripide montagne che dalla Grecia portano all’Ungheria del muro passando per Macedonia e Serbia.

Durante lo scorso inverno, ben prima delle immagini delle manganellate dei poliziotti macedoni e della cameraman ungherese dallo sgambetto facile, le grandi Ong internazionali e gli attivisti delle associazioni locali avevano provato a spiegare ai leader di Bruxelles che la rotta balcanica per raggiungere l’Europa del Nord stava diventando sempre più trafficata e che con l’arrivo della bella stagione sarebbe letteralmente esplosa a meno che non si fosse aperto un corridoio umanitario legalizzato. Appelli ignorati visto che l’intervento previsto dal piano europeo sull’immigrazione di maggio si impegnava ad alleggerire la pressione migratoria solo su Grecia e Italia. E questo perché, come implicitamente ammette la Commissione, ci si è cullati sulla convinzione che basare questo nuovo sistema di intercettazione ed identificazione dei migranti nelle isole greche, primo vero “incontro” di chi scappa da guerra e fame con l’Unione europea, sarebbe stato sufficiente a bloccare la pericolosa rotta. Evidentemente non è stato così, se si considera che dei 145mila migranti arrivati in Ungheria dall’inizio del 2015 la quasi totalità è costituita dai 211mila precedentemente sbarcati in Grecia, con un incremento degli attraversamenti irregolari del 150 per cento.

 

Jean-Claude Juncker

 

Ma nello specifico quali proposte verranno discusse, ed eventualmente adottate, il 14 settembre alla Commissione affari interni dell’Unione europea? Il meccanismo delle ripartizioni e il nuovo calcolo delle quote per paese, gli hot spot (nuovi Cie?) e l’elenco europeo dei “paesi sicuri” hanno creato molta confusione tra addetti ai lavori e stampa, così da Bruxelles hanno deciso di organizzare degli incontri a microfoni spenti in tutte le capitali dell’Unione per rispondere alle domande dei giornalisti sulla nuova linea intrapresa dalla Commissione.

In teoria, il pacchetto di Juncker attiva per la prima volta l’articolo 78 paragrafo 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che prevede l’adozione di misure straordinarie in supporto di paesi membri colpiti da un afflusso improvviso di cittadini extraeuropei. Non ci si aspetti un superamento del famigerato regolamento di Dublino: la Commissione proseguirà nell’applicazione integrale del sistema comune di asilo e di identificazione dei migranti. Semmai lo velocizzerà: agli Stati membri è stato chiesto di adeguarsi alle Eurodac, una serie di norme secondo le quali sono tenuti a prendere in tempi brevi le impronte di tutti i cittadini apolidi e di Stati terzi che abbiano più di 14 anni. E, seppur la questione sia passata in secondo piano, i procedimenti di infrazione tanto criticati da Polonia, Ungheria e Paesi baltici valgono anche qualora venga disattesa la direttiva sui rimpatri. Che continueranno ad essere di competenza esclusiva dei Paesi membri, nonostante il rafforzamento previsto del ruolo di Frontex.

In questo contesto si inserisce il sistema “punti di crisi” o hotspot dove effettivamente avverranno l’identificazione e lo “smistamento” tra coloro che beneficeranno della ricollocazione e coloro che dovranno seguire le regolari procedure di richiesta d’asilo previste dal regolamento di Dublino. Punti sui fronti dell’Unione dove i paesi membri, a loro discrezione e in base alle roadmap scritte dai paesi beneficiari del supporto, manderanno uomini a sostegno delle prime fasi di accoglienza e identificazione.

Al di là delle misure d’emergenza, l’effettiva novità è rappresentata dall’istituzione di un meccanismo permanente di ricollocazione che permetterà di applicare la “clausola di solidarietà temporanea” ogni volta che sarà necessario. Quella clausola, per intenderci, con quale allo stato attuale si voglio ridistribuire i 120mila rifugiati di Italia (15.600), Grecia (50.400) e Ungheria (54mila) in base non solo a volume di popolazione (40%) e pil (40%), ma anche tasso di disoccupazione (10%) e media delle domande d’asilo ricevute in passato (10%). Un piano da 780 milioni di euro (6mila a persona) da applicare solo ai richiedenti asilo provenienti da paesi che hanno una media di riconoscimento superiore al 75%, quindi, attualmente, a siriani, iracheni ed eritrei.

Si lasciano così fuori dal piano emergenziale gli afgani, che sin dall’inizio dell’Enduring freedom dell’amministrazione Bush jr hanno costituito una parte importante nei flussi balcanici. Saranno fuori dal piano anche curdi del nord e kosovari, dal momento che Turchia e Serbia rientrano nell’elenco dei “paesi sicuri”. Quei paesi che secondo la Commissione rispetterebbero i criteri di Copenaghen (democrazia, stato di diritto, diritti umani e rispetto delle minoranze). Insomma, un altro passo verso la velocizzazione dei rimpatri.

Resta da capire se, nel concreto, le misure riusciranno ad arginare l’oliato ingranaggio dei trafficanti. Probabilmente il punto più debole di tutto il piano. È stato previsto un fondo fiduciario per l’Africa di 1,8 miliardi di euro che, tra le altre cose, istituirà in Niger punti di incontro con i migranti economici, ai quali verrà dato denaro per dissuaderli dall’intraprendere l’attraversamento del Sahara e farli tornare verso casa.

Si continuerà nel frattempo a fornire sostegno economico ai siriani dislocati in Giordania, Turchia e Libano e a perseguire la strada del dialogo in Libia. Troppo poco perché il piano soddisfi chi si occupa da anni di migrazioni transmediterranee. «Gli Stati membri dovrebbero cercare di aumentare i percorsi sicuri nella Ue, non i paesi sicuri dove rispedirli», ha commentato Iverna McGowan, direttrice dell’ufficio di Amnesty International presso le Istituzioni europee.

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Articolo scritto da Joshua Evangelista e Monica Ranieri

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