Immigrazione
Perché bisogna cambiare la percezione del fenomeno immigrazione
Nelle previsioni per il 2024 che in questi primi giorni dell’anno i media ci hanno ripetuto all’infinito, uno dei punti di attenzione più ricorrenti è legato al fatto che quest’anno circa 2 miliardi di persone andranno a votare. È la prima volta che ciò accade in numero così elevato e molte elezioni si terranno in paesi che, almeno dal nostro punto di vista, non possono essere definiti democratici e quindi con risultati quasi scontati.
Se però ci concentriamo sulle prossime elezioni inglesi e americane, quello che è davanti ai nostri occhi è il mutamento radicale dei temi alla base delle campagne elettorali: se in passato i temi principali erano economici e di politica interna o estera, questa volta il principale tema di discussione tra i diversi partiti e candidati è, direttamente o indirettamente, quello dell’immigrazione.
Purtroppo però, il tema immigrazione viene raramente trattato insieme a quello della curva demografica dei paesi e viene invece utilizzato per affermazioni quali “gli immigrati ci portano via il lavoro”, “prima i nostri cittadini” ecc, slogan forti portatrici di posizioni nette che permettono di attrarre (o perdere) voti.
Vorrei dunque cercare di dare una visione del fatto che, dati (2022) alla mano, la situazione demografica di alcuni dei paesi che andranno a votare – a cui ho aggiunto paesi non in campagna elettorale ma che ben rappresentano la gravità dell’invecchiamento progressivo del cosiddetto mondo sviluppato – dovrebbero rivedere radicalmente i termini della discussione sull’immigrazione, dimenticando argomentazioni che parlano alla “pancia” degli elettori e scegliendo politiche che favoriscano le nascite.
La situazione sulla base di dati pubblici disponibili (Eurostat Statista e Stat.go) mostra che, senza addentrarci in analisi particolarmente sofisticate, praticamente tutti i paesi analizzati devono gestire una popolazione “vecchia” (con l’Italia seconda solo al Giappone nella fascia over 65 e con quasi la metà della popolazione, il 46.8% oltre i 50 anni). Questo tipo di distribuzione genera da un punto di vista economico (spesa sanitaria, riduzioni delle contribuzioni sociali, carico pensionistico, necessità di ripensare alcuni servizi pubblici quali ad esempio i trasporti solo per citarne alcuni) ma anche sociale la necessità di rivedere la narrazione e la percezione dell’immigrazione da parte degli elettori. Al contempo, se si aumentasse la consapevolezza degli elettori al riguardo, si potrebbe quanto meno tentare un’analisi dei rischi e delle opportunità del fenomeno molto diverso da quello riduttivo oggi in essere.
La cosa che sorprende è il fatto che, anche paesi che sulla immigrazione hanno costruito gli ultimi due o tre secoli di prosperità, quali UK e US, hanno fatto della “lotta all’immigrazione” uno dei punti cruciali dell’attuale dibattito elettorale: pensiamo alla posizione del primo ministro inglese Riki Sunak impegnato a combattere la corte suprema inglese su un progetto assolutamente inefficace quale l’invio dei migranti “clandestini” in Ruanda (che, a parte la distanza, non sembra molto diverso dall’idea di portare i migranti in Albania o dei Repubblicani USA che, pur di forzare una stretta sull’immigrazione, hanno bloccato i fondi per l’Ucraina e per Israele).
Se al contrario si prendesse atto della necessità dei paesi “vecchi” di utilizzare a proprio beneficio una immigrazione che, come dimostra la storia, se ben gestita (pensate alla Germania della Merkel con gli immigrati siriani), potrebbe rappresentare una risorsa e non un rischio, anche il tono del dibattito potrebbe modificarsi dal “contro” al “come” gestire il fenomeno migratorio. Come sempre però il “diavolo sta nei dettagli”. Non ho la presunzione di poter consigliare soluzioni pronte per l’uso ma, forse, in un dibattito pragmatico e costruttivo alcuni ipotesi da considerare potrebbero essere: l’allestimento presso le ambasciate/consolati di centri di “selezione” delle persone interessate ad emigrare. Questi dati della “domanda” – che dovrebbero essere sempre aggiornati (e le fonti di informazione al riguardo sono molte) – dovrebbero permettere ai “selezionatori” di privilegiare persone che abbiano le competenze e la disponibilità a lavori come quelli richiesti. Un’altra opzione potrebbe essere quella di incrociare la gestione delle domande di immigrazione con la richiesta di personale adatto a prestare lavoro/servizio nelle diverse aree dei paesi interessati ad aprirsi a una immigrazione “selettiva”, gestita sulla base di standard europei (il processo per evitare una “concorrenza tra paesi” dovrebbe infatti essere omogeneo e magari coordinato da organismi sovrannazionali come la UE o le nazioni unite).
A fronte di questo accesso “semplificato” alla possibilità di importare lavoratori e lavoratrici, le controparti che beneficeranno dell’inserimento dei nuovi entranti (imprese, settore pubblico, famiglie, etc.) dovrebbero impegnarsi, sotto il coordinamento dell’autorità centrale, a finanziare o provvedere direttamente a un adeguato supporto iniziale – per dirla in lessico d’Impresa, al “periodo di inserimento (training)” – in cui si offre agli immigrati e alle loro famiglie un alloggio ragionevole, l’accesso a corsi di lingua, accesso al sistema scolastico per i minori, accesso al SSN, etc. In questo modo si potrebbe pensare ad una situazione win – win per cittadini, autorità e migranti.
Prevengo due obiezioni che sono certo arriveranno da parte di molti lettori. La prima è che la “domanda di nuovi cittadini” non è infinita, la seconda riguarda la necessità di proteggerci dalle possibili infiltrazioni di “malintenzionati”. La risposta al primo punto è insita nei numeri: a meno che la curva demografica “autoctona” non inverta il trend, la domanda si autoalimenterà e queste nuove risorse che, una volta inserite, pagheranno tasse, contributi, servizi, compreranno prodotti favorendo anche la crescita economica e faranno parte del nostro patrimonio. Per il secondo quesito la risposta è meno chiara ma da ricercare in quali potrebbero essere le alternative: i “malintenzionati” sono normalmente quelli meglio organizzati che troveranno sempre il modo di infiltrarsi e sembrerebbe più opportuno minimizzare il rischio – giacché eliminarlo è impossibile – attraverso uno screening completo dei richiedenti asilo – che permetta se possibile di identificare subito i potenziali soggetti pericolosi. Ancora una volta, molto dipenderà dalla qualità e dalle procedure applicate al processo di selezione.
Chiudo con una battuta e una considerazione: uno degli slogan di maggior successo nella campagna referendaria per la Brexit era “no more Polish plumbers!” (non più idraulici polacchi!). Oggi in Inghilterra trovare un idraulico è diventata un’impresa (e la maggioranza di quelli che si trovano sono comunque non inglesi anche se stabiliti da tempo nel paese) e nel frattempo come in tutti casi di scarsità di offerta, il costo è aumentato molto più di quanto giustificato dall’inflazione. Il fenomeno dell’immigrazione – a maggior ragione in un’era dove la popolazione dei paesi poveri cresce a tassi esponenziali rispetto alla crescita (se non addirittura la decrescita) dei paesi “sviluppati” e dove grazie al web anche loro “vedono” il nostro livello e stile di vita – è inarrestabile nonostante i rischi anche umani che questo comporta.
Le promesse del governo italiano di ridurre i flussi si sono dimostrate del tutto vacue. È quindi meglio gestire, cinicamente se volete, il problema, che subirlo.Per fare ciò è però necessario che il dibattito politico e sociale cambi il punto di vista: non “contro” l’immigrazione ma per un’immigrazione gestita e, per quanto possibile, controllata. Da questo punto di vista, pur non essendo d’accordo con il loro messaggio, la responsabilità non è dei Trump, dei Salvini, degli Orban, ma è della scarsa informazione, per non dire ignoranza, di larghi strati della popolazione a cui sarebbe bene cercare di porre rimedio con messaggi fattuali diffusi capillarmente da tutti i mezzi di informazione.
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