Famiglia

Palati in fuga. Salsiccia e friarielli con antipasto di olive fritte

25 Febbraio 2017

“Ciao Gerineldo.”

“Ciao Mamma, come stai? Ti ho cercata più volte in questi giorni.”

“Hai ragione, sono stata girando e anche adesso sono a casa da poco.”

“E come va?” Chiedo io.

“ Madonna mia, è un altro di questi giorni freddi, con l’aria umida e piena d’inverno. Tu te lo ricordi, vero? Come fa qui a gennaio e febbraio da quando non nevica più?”.

“Sì, certo”, dico io ripensando alla greve uggiosità dei giorni nordici, in cui non distingui la mattina dal pomeriggio perché la luce è sempre quella, un’ombra plumbea proiettata sul giorno, che cambia solo al momento di precipitare nel crepuscolo.

“Con questo tempo le ginocchia si gonfiano e mi fanno male”, riprende lei “è la vecchiaia, o forse una combinazione di vecchiaia e tre quarti di vita con questi inverni nelle ossa. Tra l’altro saranno dieci anni che non passo un giorno al mare d’estate. Quello aiuta; dicono. Inutile comunque lamentarsi troppo, è così”.

Che paradosso, penso io, detto da lei che si è sempre lamentata moltissimo, in verità più per rimarcare conseguenze e varianti disconosciute dei propri patimenti, che per condividere quelli reali. E la misura della solitaria follia in cui ha sempre vissuto è particolarmente evidente ora, che di veri dolori di cui lamentarsi ne avrebbe molti, ma ai quali accenna soltanto, perché la sua dimensione, la sua irrealtà, non ne viene toccata. Come spesso accade con i paradossi, la spiegazione però c’è e risiede in una logica diversa, meno evidente, che a me è chiara da poco, perché è da poco che le riconosco, accettandola, la sfortuna di un’anima condannata al solo dolore a partire dall’infanzia. Raccontare di reali ginocchia gonfie o vere emicranie, operazioni chirurgiche ed ernie, le è quindi sempre servito solo quando ci ha visto l’occasione per nominare quel suo unico grande male di esistere che diversamente e in maniera diretta non ha mai saputo dire. Ma questi sono pensieri miei, lei intanto continua a parlare.

“Oggi è martedì e questa mattina sono andata all’Altersheim ad aiutare a fare da mangiare per i vecchi. Qualcuno è così svanito che mi chiede ancora Michele come sta. Parlo con loro, passo il tempo, mi aspettano sempre.”

So che non è vero, anzi sono infastidito a sentirglielo dire, ma lei non riesce a non rimarcare l’importanza che pretende di avere ed avere avuto per gli altri, i quali, però, al di fuori del cerchio strettissimo di chi ha dovuto subirla, cioè io, mio padre e mia sorella, di importanza non gliene hanno mai data. Quando era piccola per un insieme di tragedia e sfortuna, poi per l’ipersensibilità del carattere ingrato e contundente in cui queste tragedie si sono cristallizzate.

“Ci vado una volta alla settimana, dai vecchi, oltre a uno o due sabati al mese quando c’è da aiutare per il pranzo che si organizza nella sala dietro alla chiesa o nel cortile d’estate. Tornando, poi, sono passata dal cimitero a trovare papà. Si assesta, la terra con cui hanno ricoperto la tomba si sta abbassando. Ho sistemato un po’ le piante. Dopo queste giornate di pioggia fine è tutto un po’ fangoso”.

Fa una pausa, le sento nella voce una stanchezza mesta, ma dolce. Le dico ridacchiando “mamma, se ti fanno così male le gambe potresti provare ad aiutarli in qualche altra maniera i vecchi. Cucinare è una cosa molto faticosa per la schiena e sopratutto per le gambe. Anche perché all’età ormai anche tu puoi concedere qualcosa, visto che tra sei mesi compirai ottant’anni e molti di loro, anno più, anno meno, sono tuoi coetani.”

“Si hai ragione” risponde lei ravvivata, “ma considera che quando gli anni sono ottanta “l’anno più o anno meno”, come dici tu, fa la differenza. Eppoi i miei si vede che sono ottant’anni più fortunati, almeno finchè io sentirò il desiderio divolerli aiutare, fosse anche solo per dare un po’ di ritmo al mio tempo, mentre loro hanno scelto quasi tutti di masticare l’aria.”

“Masticare l’aria? Cosa vuol dire?” Le chiedo incuriosito.

“Che sapore ha l’aria a masticarla?” Fa lei. “Ecco cosa vuol dire. Da noi si usa per dire la mancanza di senso”.

Ad ascoltarla rivedo l’immagine degli anziani nella casa di riposo quando al pomeriggio o in tarda mattinata andavo a trovare papà fuori dagli orari del pranzo. Uscendo dall’ascensore non si sentiva alcun rumore, per cui uno poteva presumerli nelle camere o in giardino, coi parenti o a fare riposini. E invece percorso il corridoio, svoltando nel grande spazio comune, trovavo anche venti e più di loro seduti, silenziosi e immobili con lo sguardo umido fisso davanti a sé e un’aria inspiegabilmente attonita. Ha ragione la mamma, masticano l’aria in silenzio nel più completo dissapore per la vita. Anche perché molti, a differenza di mio padre, arrivavano lì senza una vera ragione organica e nelle prime settimane erano normali anziani: parlavano, passeggiavano guardavano la televisione con qualcuno e decidevano di andare a letto nella propria stanza. Poi in poco tempo, settimane o pochi mesi, cominciavano a scivolare in questo torpore indefinito dell’inconsapevolezza.

“Tu Gerineldo hai quasi 50 anni e ti sarai ormai accorto che le luci si spengono a una a una; le ragioni per cui vivere vale la pena, finiscono prima della vita. A volte molto, ma molto prima, diciamo anche prima dell’età che tu hai adesso. E allora per restare nella realtà ti restano decenni faticosi da passare trafficando con i giorni, a meno che tu non abbia un dono immenso, una perversione tenace, o semplicemente un destino capace di accompagnarti fino alla fine. E se non ce l’hai? Come non l’ha la maggior parte di noi? Se non ce l’hai provi ad amministrare forze e dolori per arrivare a fine giornata avendo fatto cose di un qualche senso logico.”
“E cosa sarebbero le cose di un qualche senso logico?” Le chiedo incuriosito, ma comprendendo con la pelle il suo discorso.

“Quando muore il desiderio, in generale intendo, e sei a posto con le necessità pratiche perché sei vecchio e assistito dal benessere minimo di una società civile, fare cose logiche significa fare cose di cui altri, che il desiderio o la necessità ce l’hanno ancora, hanno deciso lo svolgimento. Devi metterti al seguito, perché tu sei senza bussola

“Una cosa logica, dunque, sarebbe dare da mangiare a vecchi spenti dell’Altersheim?”. Chiedo io.

“Esattamente”, mi dice e aggiunge, “perché qualcuno ha il problema di doverlo fare e per farlo deve parlare, toccare, coordinare … Per guadagnarsi lo stipendio, tornare a casa, badare a figli e familiari. E a me che sono senza fini, fa comodo mettermi a disposizione per arrivare alla fine di giornate come questa con una vera stanchezza da cullare.”

“Questi vecchi tedeschi, poi, sono sfortunati. Da noi, giù in Italia, dove c’era la campagna, l’agricoltura, il bisogno e tutti avevano a che fare quotidianamente con una o più di queste cose, desiderio e necessità trovavano di che alimentarsi. Anche per i vecchi cambiava sempre tutto; la temperatura e con lei agi e disagi, quello che poteva esserci da mangiare, la luce e il ritmo delle giornate, le persone restate e partite. Tutte cose non necessariamente buone, ma che impedivano di perdere il sapore della vita. Magari sapore amaro, ma sempre presente, spesso intenso. Mentre qui no, qui c’è sempre tutto, si mangiano le stesse cose, abbastanza indistinguibili per come sono e per come le cucinano. Si può anche fare sempre tutto, ma mai qualcosa di speciale, perché viviamo protetti dall’inverno e dal caldo timido dell’estate, senza nessuno che emigra a segnare il tempo con la sua mancanza e scandirlo con i propri ritorni”.

“Mamma, ma quella è l’Italia dei tuoi ricordi, quelli una di giovane donna nella metà degli anni sessanta. Da allora sei sempre tornata solo per poche settimane. Oggi potrebbe essere cambiato tutto.”

“Tu dici? ” Risponde lei. “Io non credo, l’Italia che sento io da qui, non è la Milano bellissima dell’Expo e delle trasmissioni dove si vincono soldi. Dai racconti dei parenti a me sembra che l’istinto forte di quella terra abbandonata da ogni governo, non conosca progresso. Sì ci sono molte più case costruite e abbandonate da quelli come me e tuo padre; molti più vecchi con la pensione che mantengono figli sposati e disoccupati e nipoti che vanno a scuola. Ma chi vive lì è da quelle terre e dalla cadenza che imprimono alla vita che continua a farsi dominare: stagioni, luce, roba da mangiare, gente che va e che torna per qualche giorno una, due volte all’anno… Questo è tornato a essere il ritmo.”

Ha ragione anche in questo la mamma. Ci sono più negozi di frutta e verdura in un solo viale di quei paesi del sud, che in tre di queste cittadine tedesche e dietro ogni negozietto c’è un marito contadino con un pezzo di terra. Quanto si può guadagnare vivendo in prevalenza di questo, di altri piccoli lavoretti e delle pensioni dei vecchi? La risposta la sta dando lo  spopolamento per “emigrazione” che da dieci anni colpisce i quartieri, le vie e le famiglie come un’epidemia silenziosa che fa sparire le persone e spegne la luce nelle case. Chi non ha un’entrata minima a cui aggrapparsi, lì certamente non la trova e il valore delle case edificate con le rimesse degli emigranti negli anni settanta e ottanta, raramente supera quello di un’automobile per una famiglia media.

“Comunque, io tornare non ci potrei. Mi fa paura la mia tristezza a vedere l’errore della mia generazione; invece di vivere ci siamo sacrificati per migliorare quel mondo con un po’ di benessere per passarci la vecchiaia”, riprende la mamma, “ci hanno traditi ignoranza e ingenuità. Anche se a quel mondo ci penso con nostalgia ogni santo giorno. Ti lascio immaginare la nostalgia che potevo averne nel 1965 quando sono partita”, dice con una risatina. “Qui non c’era niente nemmeno una cabina del telefono in piazza. Ora abbiamo whatsapp, vedo la Rai, Canale 5, Rete 4. Da poco due giovani appena emigrati hanno anche aperto un negozietto di prodotti italiani dove prima c’era il Penny. Una volta alla settimana viene  pure un camion con la verdura e la frutta da giù. Adesso che è stagione portano anche le cime di rapa. Sono salernitani e li chiamano friarielli, ma quelle sono. Stasera mi faccio due olive fritte, me le hanno portate a novembre, con l’olio. Ne ho prese due chili e le ho congelate. Ne prendo una manciata ogni paio di giorni e le faccio in padella. Mi piace quel gusto amaro che risveglia la parte della bocca dietro alla lingua. E poi faccio le cime di rapa con la salsiccia. Se dovessi dire d’istinto la cosa che mi è mancata di più del mio paese direi proprio la verdura e tra le verdure proprio le cime di rapa. Al punto che una notte d’ottobre quando ormai stavi per nascere  le ho sognate e risvegliandomi con le mani in faccia ho temuto che saresti nato con le voglie verdi sulle guance. E appena sei uscito ti ho guardato subito, per fortuna avevi solo quella voglia di ricotta tra i capelli. Sai le cime di rapa sono state una vera astinenza: noi scendevamo giù d’estate, ma com’è noto non è quella la stagione in cui si trovano le cime. In autunno e inverno eravamo sempre qui e qui nei negozi non si trovava nemmeno la pasta. Puoi immaginare che vita?”

Facciamo entrambi il rumore di un sorriso. Lei è stanca di parlare, io non ho più voglia di ascoltare. Arriva sempre così, un po’ all’improvviso la fine delle nostre telefonate. Ci salutiamo.

Mi metto le scarpe ed esco, vado al supermercato, compero un chilo di cime di rapa e la salsiccia. E nel freezer anch’io ho ancora una manciata di olive surgelate. Le ho prese al mercato a fine ottobre. Un discreto risultato, mi dico, dopo aver passato la vita a cercare di somigliarle il meno possibile. Poi torno a casa e mi metto a cucinare mentre ascolto Coleman Hawkins, The Hawk Flyes High… Sassofono, Bronx, nostalgie di altri. Ci vuole per sciacquare questa specie di sabbia umida che mi appesantisce il cuore dopo le sue telefonate.

Procedimento

Le Olive Fritte. Si comperano intorno a ottobre. Al nord sono più difficili da trovare (a Milano capita che qualcuno, nei mercati, le abbia). Al sud ce l’hanno tutti. Al Centro non  saprei. Sono quelle olive che chiamano olive dolci. Di colore nero, io ne compero uno o due chili all’anno, le lavo, surgelo e le mangio fino a primavera. Si preparano mettendo un filo d’olio in una pentola antiaderente, un pizzico di sale e si fanno andare a fuoco basso per una decina di minuti. Saranno cotte quando mostreranno qua e là qualche crepa, rilasciando un liquido scuro. Sono un antipasto che accompagna benissimo i primi sorsi di vino, finendo di cucinare questo o quello in vista della cena.

Salsiccia e cime di rapa o friarielli. Per quattro persone. 600 grammi di salsiccia in due pezzi, un chilo abbondante di cime, un paio di spicchi di aglio, olio sale e peperoncino. Non vorrei qui tradire l’intento di questi “appunti di cucina possibile”, addentrandomi nelle differenze tra “cime”, “broccoletti” o “friarielli”. Differenze  che ci sono, ma non al punto da essere ostative alla ricetta. Le cime si puliscono separando i gambi duri, che a volte butto e altre, seguendo la consuetudine di mia madre, taglio in due per il lungo, faccio bollire e mangio conditi con olio. La parte tenera, da usare per la ricetta, è costituita dalle foglie e dai gambi sottili, non fibrosi. Li lavo immergendo la verdura in acqua tiepida: è il segreto perché perda eventuali residui di terra. Un trucco che in realtà si rivela decisivo soprattutto per pulire gli spinaci impiegandoci un minuto,  invece di un’ora.

Intanto in una padella antiaderente metto la salsiccia e la copro a filo di acqua, facendola cuocere inizialmente per quindici minuti. Trascorso il tempo, elimino l’acqua, passo il fondo con uno scottex,  aggiungo un filo di olio e faccio rosolare per massimi dieci minuti. La salsiccia preferisco non dividerla in troppi pezzi (massimo due per le quantità indicate), nè la buco girandola; in questa maniera non perde gli umori interni e resta più morbida.

Avviata la cottura della salsiccia, in una seconda padella, io uso quella antiaderente a bordo alto da 28 cm che si vede in fotografia, copro il fondo di olio, faccio imbiondire uno spicchio d’aglio schiacciato e faccio insaporire l’olio con un peperoncino. Poi ci trasferisco le cime ancora grondanti un po’acqua, le copro, faccio appassire per una decina di minuti. Quindi scopro per consentire all’acqua in eccesso di evaporare ma facendo comunque attenzione a non far seccare la verdura. Quindi aggiungo la salsiccia che trascorrerà gli ultimi cinque minuti di cottura con le come di rapa – friarielli.

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