Immigrazione
L’Italia della crisi (e del disagio) e la favola dell’uomo nero
Se l’Aquarius è rimasta in mare per giorni interminabili prima di poter approdare a Valencia è anche colpa della sinistra, forse soprattutto della sinistra. Facile infatti puntare il dito contro Salvini e i suoi – sicuramente colpevoli di uno dei più miseri atti propagandistici della già misera politica italiana in tema di migranti – ma si tratta dell’ultimo atto di uno spettacolo che va in scena ormai da anni e che nasce da un’assenza: quella di una sinistra capace di svolgere il suo compito e di un’analisi schietta e (uso un termine “buonista”) sincera della realtà in grado di creare un ponte emotivo con le persone.
Un passo indietro: in Italia le cose vanno male. Inutile parlare di ripresa basandosi solo su dati statistici. L’occupazione non è migliorata quanto qualcuno, specie in campagna elettorale, voleva far credere e, soprattutto, non esiste una strategia di rilancio imprenditoriale ed economico di grande portata in grado di far fronte a quelli che saranno i cambiamenti nel mercato del lavoro dei prossimi anni. Il dibattito, almeno negli ultimi tempi, si è polarizzato su due diversi fronti: coloro che difendevano i diritti storici dei lavoratori, coloro che, per riformare, li hanno messi in discussione. Jobs act sì, Jobs act no. Nessuno – o quasi – però si è posto il problema di come sarà il mercato del lavoro italiano nel momento in cui, fra qualche anno, la rapida evoluzione della robotica renderà completamente inutili buona parte dei lavori ad oggi richiesti dal mercato. Nessuno si è domandato quali possano essere le strategie, per un paese sicuramente ricco di eccellenze ma piccolo, drammaticamente piccolo in scala globale, per “tenere” e reggere l’impatto di mercati sempre più grandi e sempre meno monitorabili dalla nostra penisola (non uso volutamente governabili, non è nemmeno da prendere in considerazione). Inoltre, mentre ci si arrovellava (giustamente premetto) sui voucher e sulle nuove norme dei contratti per i dipendenti, ci si è dimenticati di sottolineare quanto lo stato abbia investito su alcune grandi imprese, che tuttavia – in risposta – hanno deciso di esternalizzare buona parte della produzione e di portare investimenti e capitali altrove.
Vado in vacanza, ma con i soldi di mamma e papà.
Si è deciso, più o meno consapevolmente, di ignorare i macro problemi insomma, forse perché è più semplice discutere l’eliminazione di una garanzia per i lavoratori simulando una ripresa sulla carta, piuttosto che scontrarsi con una grande impresa e mettere dei “paletti” più stringenti in nome di una ripresa vera. Così anche “nel piccolo”, quasi nessuno si è occupato di quei piccoli e medi imprenditori che, dopo aver preso gli incentivi per le nuove assunzioni, hanno pensato di lasciare a casa, scaduti i termini, i dipendenti o, con uno slalom gigante degno di un campione olimpico, trovare trucchetti ed escamotage per evitare di stabilizzare chi, a tutti gli effetti, aveva diritto per legge (anche per il famigerato Jobs act) ad una stabilizzazione. In Italia funziona così: siamo brava gente, onesti lavoratori, ma ci piace non prenderci troppo sul serio.
Accade però che le persone, quelle che vivono non di statistiche ma di stipendio, si siano accorte che le cose non vanno poi così bene. Alla fatica quotidiana di precariato, disoccupazione, cassintegrazione e licenziamenti, si è aggiunta la sensazione che il governo, lo Stato o qualunque entità superiore detenga il ruolo di indirizzamento e guida delle politiche del Paese, sia in malafede.
Immaginiamo una famiglia “media” nella quale almeno un componente si trova in una delle condizioni lavorative (o di disoccupazione) di cui sopra: tv accesa durante la cena, il telegiornale parla di ripresa e un rappresentante x delle istituzioni conferma in modo entusiastico i dati. Alla stanchezza si aggiunge la frustrazione e, se nessuno – di altra componente politica, sindacale o dell’associazionismo – si fa carico di un contraddittorio, sorge il sospetto di essere “vittime” di qualche tipo di torto. Se c’è la ripresa e noi continuiamo a soffrire evidentemente la colpa dev’essere di qualcuno. Se però la colpa non è del governo né delle imprese, allora va identificato un capro espiatorio. Frustrazione e rabbia hanno bisogno di uno sfogo e, lo sapevano bene gli antichi, per evitare che lo sfogo diventi interno al sistema, occorre spostare l’attenzione (in questo caso astiosa) su un obiettivo esterno. A Roma si chiamava metus hostilis e per centinaia di anni è stato il miglior metodo di coesione “nazionale” dell’antichità. Sei cartaginese, brutto, sporco e cattivo, vai distrutto perché tutti i nostri mali derivano dal fatto che esisti. L’uomo nero poi ha da sempre goduto d’immensa fortuna come espediente per tenere a bada le crisi familiari generate da bambini non collaborativi.
Digressoni a parte, si capisce fin da un primo passaggio quanto peso abbiano queste dinamiche sul caso Aquarius e sui molti altri casi di respingimenti avvenuti in Italia negli ultimi mesi. La sinistra non ha fatto il suo mestiere. Certo si è prodigata in giuste dichiarazioni sul valore dell’integrazione, sull’accoglienza, sulla società aperta, sull’urgenza di un percorso culturale e multiculturale per arrivare ad una civile convivenza plurale.
Tutto questo è essenziale, ma la sinistra si è dimenticata di un elemento basilare: quando si ha fame non si riesce a dormire, figurarsi a ragionare.
Così, nella metaforica (a volte molto poco metaforica) condizione di fame in cui vivono molte famiglie italiane in questo momento, è arrivato un messaggio chiaro: da una parte c’è chi difende gli italiani prima di tutto che, in un momento di vacche magre, significa “la pagnotta prima a qualcuno, poi se avanza qualcosa a qualcun altro” e dall’altra coloro che, con il poco pane presente in tavola, continuano a invitare ospiti che “più si è meglio è”. Il problema quindi non è solo culturale. Il problema è che la gente sta male e irresponsabilmente, da anni, si è evitato di puntare il dito verso i veri problemi inseguendo le urgenze contingenti. Le ragioni sono molte, la più grave è che nessuno ha il coraggio – o forse la preparazione – per immaginare un sistema diverso. Purtroppo però è l’unica via che abbiamo per uscire da una “crisi” che crisi non è: riconoscere un passaggio epocale definitivo e irreversibile, cambiare metodi, mezzi e obiettivi.
Difficile vero? Molto meglio dare la colpa a un barcone in arrivo e sperare che, nell’affastellarsi di messaggi quotidiani, nessuno si renda conto che non c’è chi ha trovato un lavoro stabile grazie al respingimento di un suo simile.
Avere il coraggio di dire queste cose, tutti i giorni, rispondendo nel merito, sarebbe già qualcosa per la sinistra. Il passaggio successivo potrebbe essere riconoscere che siamo un paese che vive di lavoro in nero, evasione fiscale, fuga all’estero di grandi capitali, un paese di “Sono 130 euro, ma se mi paga in contanti e non le serve lo scontrino facciamo 125”, un paese dove pochi, pochissimi imprenditori si fanno carico del rischio d’impresa e non giocano solo sui contratti dei dipendenti, un paese dove il concetto di “innovazione” fa sorridere e pensare solo a quattro ragazzini che progettano una start up strampalata in un garage. La sinistra si è fatta carico solo parzialmente di questo discorso e la rabbia sociale, che fisiologicamente si scatena in mancanza di lavoro (quindi di dignità), si è riversata volutamente sullo straniero. Inutile fare appello alla cultura, all’umanità, alla sensibilità personale. Per ogni ponte emotivo che si cerca di costruire su questi argomenti c’è in risposta un padre che non sa come pagare i vestiti ai figli, una madre licenziata perché aspetta il secondo figlio, un figlio che è costretto a chiedere i soldi in casa e a rimandare la sua vita, quella sì, a tempo indeterminato. Nessun contatto può essere stabilito in queste condizioni. Solo con un impegno concreto verso l’occupazione, i servizi, solo con una nuova “idea” per i prossimi vent’anni, ci si potrà permettere di “educare” all’accoglienza. Nel vuoto invece – allo stomaco e istituzionale – si insinua sempre qualcosa. Un mal di pancia verso chi è diverso, sporco e cattivo e arriva per portarci via il poco che abbiamo, un altra realtà, da noi storicamente sempre presente, che sul vuoto istituzionale ha costruito il suo impero. Perchè la mafia è quella della tratta di esseri umani ed è quella che, ora più che mai, risponde ai bisogni delle persone in difficoltà: bianche, nere, italiane, straniere. E il passo è breve, perché se si sdogana il messaggio della paura e soprattutto l’idea che la responsabilità non è delle istituzioni, ma di chi viene da fuori, allora si indebolisce l’idea stessa di comunità civile in cui viviamo, che non dovrebbe essere un valore astratto, ma qualcosa di ben concreto a cui poter far riferimento per esercitare diritti e doveri. Quindi se anche non volessimo considerare il fatto che le migrazioni sono un fenomeno ineliminabile (sempre ci sono state e sempre esisteranno), che si possono se mai governare responsabilmente, ma non “gestire” con veti e muri, consideriamo almeno il fatto che – a prescindere dall’arrivo dell’uomo nero di turno – il lavoro sta scomparendo e che dovremo inventarci in fretta un altro sistema, prima che lo faccia qualcun altro.
Da sinistra consideriamo la possibilità di tornare a puntare il dito verso la radice dei problemi, di metterla a nudo, di progettare, di riconoscerci non tanto in valori astratti, ma nelle priorità. E magari di arrabbiarci, ma davvero, perché la storia che ci hanno raccontato, che ci siamo raccontati e su cui – in un inseguimento al ribasso – abbiamo costruito la nostra “narrazione” è la favola contemporanea che serve a distrarci dalla condizione di disagio in cui, a prescindere da qualsiasi straniero o diritto alla sicurezza, ci troviamo.
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