Immigrazione
Le elezioni tedesche e il dibattito sull’immigrazione
A poche settimane dalle elezioni del Bundestag in Germania il dibattito sulla Leitkultur (su quale sia, cioè, la cultura da ritenersi dominante) è piuttosto acceso: da chi, al governo, sostiene che una cultura tedesca come tale (o “ufficiale”) non esista, a chi, invece, minaccia di rispedire (per la verità: entsorgen, cioè buttar via, come la pattumiera) in Anatolia chi sostiene cose du questo tipo. L’Anatolia sarebbe la Turchia odierna, mentre Aydan Özoguz, la vittima di tale minaccia, è una cittadina tedesca di origini turche (vedi qui per una fonte attendibile: https://www.merkur.de/politik/gauland-oezoguz-in-anatolien-entsorgen-zr-8632777.html) e Alexander Gauland, invece, l’autore delle minacce di tipo leghista (o forse anche pentastellato, viste le evoluzioni italiche) un politico dello pseudo-partito autonominatosi “Alternativa per la Germania” (AfD, Alternative für Deutschland). Il progetto della AfD, che include in generale tutti coloro che non sarebbero di “cultura” tedesca (la razza non è per ora ancora nominata, a livello ufficiale), è evidentemente quello di una “pulizia culturale”. Possiamo immaginare che per alcuni elettori, dopo le espulsioni o emigrazioni forzate in Anatolia resterebbe l’opzione estrema, quella dello sterminio, ma ci fermiamo qui, perché nei confronti della educata Germania ancora nutriamo dei pregiudizi positivi: i cittadini sono educati alla democrazia, alla tolleranza e al rispetto degli altri, all’argomentazione non violenta e così via.
Sarà, però, se osserviamo il dibattito sull’integrazione ci sembra di tornare indietro nel tempo, come se molte cose non funzionassero più.
Sì, perché le tesi che sono state presentate dal ministro degli Interni De Maizière (http://www.zeit.de/politik/deutschland/2017-04/thomas-demaiziere-innenminister-leitkultur/komplettansicht) e che riguardano la Leitkultur al fine di una migliore integrazione degli stranieri sono un po’ datate, quasi come le nostre, direi. La discussione non sembra progredire davvero.
Innanzi tutto, si discute di come vada intesa la parola ”integrazione”: con la propria cultura o assimilandosi a quella ospite? Come dire: da italiano immigrato a Francoforte dovrei parlare italiano e mangiare italiano e bere vino rosso? Oltre naturalmente ad attraversare la strada esclusivamente in quei rarissimi momenti in cui il semaforo pedonale diventa verde cercando al contempo di battere il record del mondo di velocità sui venti-trenta metri prima che le auto, riconquistato il verde che spetta loro di diritto (ma tu chi sei, signor Pedone?) si sentano in dovere di investirti…
Oppure dovrei bere solo birra, mangiare prodotti biologici (ah, sì, pensavate che qui mangiassero solo wurstel e crauti? No, i Würstel sono austriaci, qui si dice Wurst, che è riesig, bello grosso, così come anche mio figlio, bilingue, chiama i suoi escrementi), scordarmi l’espresso e dimenticare la mia lingua per assimilarmi compiutamente al tedesco, magari con l’accento o il dialetto francofortese? (Per chi non lo sapesse, quest’ultimo assomiglia allo Jiddisch senza parole e sonorità slave, ma ci sono ragioni storiche.)
Be’, sì, magari potrei anche optare per una via di mezzo, ma… il problema è, anche qui, non chi vuole integrarsi (con o senza assimilazione), ma chi sia da considerarsi integrabile. Su queste basi la società tedesca si sta radicalizzando, come accade da noi, e non in direzione dell’accoglienza o del “buonismo”.
Chi va integrato? Una volta in Germania gli immigrati per motivi di lavoro non venivano chiamati così, erano quelli (prima gli italiani, poi i turchi) che sarebbero stati ospitati finché in grado di lavorare, e poi riaccompagnati a casa con tutti gli onori (no, qui non sarebbero dovuti restare, anche se l’hanno fatto milioni di persone). Prima ancora, per la verità, c’erano dai dieci ai dodici milioni di profughi, che la Germania ha accolto dopo la seconda guerra mondiale. Profughi voleva dire qui “Vertriebene”, gli scacciati, gli espulsi dai paesi dell’Europa orientale, in quanto colpevoli di essere tedeschi, quindi nazisti, quindi corresponsabili delle atrocità di Hitler. Be’, sì, anche i bambini di due anni erano considerati colpevoli.
Al di là del fatto che si tratterebbe di un crimine secondo tutti gli standard di oggi, i tedeschi orientali, per la verità, non è che fossero proprio bene accolti all’epoca. E nemmeno gli ex cittadini della ex DDR, la Germania dell’Est, sono stati bene accolti a Ovest (si sono dovuti integrare in una determinata Leitkultur occidentale, e le loro fatiche sono state più che erculee, e ben più di dodici, tanto che se ne vedono ancora oggi le conseguenze).
I lavoratori ospiti furono dunque ospitati dal 1955 al 1973 (l’anno della crisi petrolifera), per poi essere “eingegliedert” (inseriti), secondo le linee guida dei governi di CDU, CSU e FDP di allora (cristiano-democratici, cristiano-sociali e liberali). Però non è che questi ospiti praticassero forme particolarmente rigorose di astinenza sessuale, per cui si presentarono le controversie sull’integrazione delle famiglie e sui ricongiungimenti familiari stessi (no, non con gli eccessi di oggi, dove si parla delle 18 mogli e dei 40 figli di ipotetici immigrati islamici). Eppure, ancora nel 1982 la coalizione di Kohl al governo poteva sostenere che la Germania non fosse un paese di immigrazione (“Deutschland ist kein Einwanderungsland”). La frase è dal punto di vista descrittivo (o predittivo) palesemente falsa, visto che la Germania si fa carico da sola della maggior parte degli immigrati in Europa, e anche di quelli europei, ma si tratta in realtà di un’azione condotta con le parole: si vuole impedire che accada, non riconoscendo quanto accade di fatto. Come dire: lo è di fatto ma vogliamo impedirlo. Di conseguenza, dal 1983 il cancelliere Kohl spinse legislativamente per il rientro degli ex Gastarbeiter (Gesetz zur befristeten Förderung der Rückkehrbereitschaft von Ausländern, che va inteso nel senso di un rientro “volontario” degli stranieri).
Nel 1998 la coalizione rosso-verde (SPD, cioè il partito social-democratico e gli ambientalisti) cambiò radicalmente paradigma: la nuova legge sulla cittadinanza avrebbe previsto che fino al 23° anno d’età i figli, nati in Germania, di cittadini stranieri avrebbero avuto il doppio passaporto (e la doppia cittadinanza, cioè quella tedesca e quella dei genitori), dopo avrebbero però dovuto scegliere una delle due. Dal 2014, date alcune condizioni come la permanenza sul territorio tedesco o un titolo di studio tedesco, l’obbligo sarebbe caduto.
Le reiterate tensioni con la Turchia spingono in una direzione ancora più restrittiva, per cui i turco-tedeschi sarebbero di nuovo tenuti a scegliere, col rischio di essere effettivamente mandati nella discarica turca (anche se non hanno nessuna relazione con quel paese, come per esempio i nipoti degli ex Gastarbeiter).
Insomma, mentre in Italia si discute dell’immigrazione e dello ius soli, qui in Germania si inizia, anche a sinistra, a ritenere che il doppio passaporto (già esistente) sia un ostacolo per l’integrazione dell’immigrato (o del discendente di immigrati). Sembra quasi che solo il partito liberale permanga su posizioni meno restrittive.
Nel discorso pubblico la Germania ha voluto spesso autorappresentarsi come il paese dell’immigrazione, e la cultura tedesca come cultura del benvenuto. Almeno da una famigerata notte di capodanno a Colonia, dove si sono segnalate centinaia di aggressioni a sfondo sessuale da parte di profughi siriani, c’è stata una svolta (non molto dissimile a quella cui si assiste in Italia dopo gli stupri e le violenze di Rimini). Ormai i mezzi di informazione tendono a mettere in risalto la violenza compiuta dai migranti, dagli immigrati, dagli stranieri, dai profughi, dai rifugiati, dagli illegali, e l’uso e l’abuso politico di queste storie di cronaca ormai dilaga. Senza queste notizie non si fa notizia, quindi abituiamoci a vederle ovunque, e ad assistere alla radicalizzazione di una società sempre più intollerante.
La società liberale, aperta, o tollerante, è ciò che stiamo abbandonando lungo questo percorso, in cui allo straniero è chiesta l’integrazione totale o la scomparsa, e alla società accogliente nessuno sforzo.
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