Immigrazione

Je ne suis pas Matrix

4 Maggio 2017

Maruan si prepara a dormire tra i piloni del tunnel in fondo a Termini, come ogni sera da un mese a questa parte.

“Preferisco dormire qua che lungo via Giolitti, lì è pieno di ladri, ti bucano le tasche mentre dormi, rubano le scarpe, qualsiasi cosa riescano a prendere la prendono”.

Sono stupito dal suo uso del congiuntivo, oltre che dall’italiano perfetto.

“Sono venuto qui 30 anni fa, avevo 5 anni. Ho fatto le scuole qui, stavo in una famiglia brava, ma poi ho fatto delle cazzate, son finito a spacciare. Anche la mia ragazza.. in che casini l’ho messa, mi dispiace. Lei mi aveva perdonato, aveva pure insistito con i suoi per farmi accettare nella sua famiglia. Ma purtroppo ci sono ricaduto, e ora eccomi qua, a dormire per strada come un cane.”
“Ti posso filmare?”, chiedo.

“No, no, non potrei mai, figurati se mi vedono così che vergogna per loro”.

Questo uno dei miei centinaia di incontri avvenuti a Termini negli ultimi due anni nel corso di TerminiTv, un canale online che ho fondato.
Arrivano i controlli a Milano centrale, e subito segue il servizio TV da Termini, è la stampa, baby. A mezzanotte, una troupe di due persone della trasmissione Matrix va in diretta da via Marsala, a Termini, dove – da anni – dorme una cinquantina di persone, su cartoni, lungo le mura della stazione. Sono luoghi che conosco molto bene, avendoli filmati svariate volte per il mio progetto, che appunto vuole essere una web tv che gira attorno a Termini e altre stazioni.

“Vieni qua, vieni qua”, mi disse un africano una volta, prendendomi per il braccio. Mi son guardato intorno, era sera, l’ho seguito, cercando però di divincolare il braccio. “Guarda, guarda su”, mi dice a un certo punto, indicandomi una luce verde da una finestra dell’hotel di fronte al marciapiede.

“Ogni sera è così”, mi dice, lamentandosi, “Filma questo, che sei, TV?”

Un ragazzo adolescente ospite di un albergo, dalla sua camera puntava un piccolo laser verde contro gli occhi di chi dormiva per strada.

Qualcosa di simile fanno i giornalisti che parlano di degrado senza però parlare direttamente con le persone di cui stanno parlando. Li capisco, e infatti anche io non filmai quella sera, perché già si stava creando un capannello intorno a me, e volevo evitare problemi. Sta di fatto però che mai una volta, in oltre due anni di TerminiTv sono stato aggredito da senzatetto a Termini. Mai. Minacciato neanche, seppur ogni tanto ci sono stati litigi tra loro se stavo filmando uno di loro e l’altro lo metteva in guardia contro i giornalisti.

Chi va a Termini non vuole problemi, e neanche vuole parlare coi giornalisti. Vale anche con gli italiani. Nessuno vuole dire niente, perché “si sa già tutto”. A Termini ci vanno i ladri, certo, gli spacciatori, pure, i prostituti, tutti devono fare “business” a Termini, e passano buona parte del loro tempo lì. Però, ed è importante sottolinearlo, non ci vanno certo per litigare. Chi lo fa, i violenti, sono anche sugli autobus carichi di pendolari, per strada, dove centinaia di donne vengono importunate ogni giorno, seguite, aggredite verbalmente. I violenti sono anche quegli italiani che insultano i turisti asiatici insultati al grido di “cinesi”. La violenza e l’odio razziale sono intorno a noi, in tutte le direzioni.
“Io là non ci dormo, sono tutti africani”, si lamenta Andrei, un veterano dei marciapiedi di via Marsala. In verità ci dorme eccome, ma non può accettare che dopo vent’anni d’Italia, si ritrovi nella stessa condizione di chi è in Italia ha vissuto solo qualche mese, in attesa del fatidico asilo politico, come fosse una bacchetta della fata turchina.

“Il mio datore di lavoro non mi paga da mesi”, mi raccontava un indiano che per anni ha lavorato al mercato di Fondi, famoso per il suo distretto agricolo. “Mi deve dare 2000 euro, e quindi mi ritrovo qui a dormire, non posso più pagare l’affitto”.

La stazione è un luogo di arrivo, o di partenza. Di arrivo, per chi ha avuto problemi di debiti, di droga, di alcool, di disoccupazione e di divorzi finiti molto male, e di partenza per i migranti più giovani, arrivati di recente in Italia. Questo è il primo errore di quel servizio di Matrix, in cui la giornalista dice “sono africani del Centrafrica perlopiù stanziali a Roma”. Non aggiunge nulla a quello che già sappiamo, ma visto che non ha a disposizione una storia reale, tanto vale ingannare il tempo con qualche pour parler. Non tutti sono centroafricani più o meno stanziali. Vogliamo una testimonianza, o tanto vale intervistare un esperto o tornare in diretta dagli studi Tv, a parlare di degrado e periferia.
Intanto la gente a casa digrigna i denti, si indigna, e ci sarà pure il fuori di testa che impugna una spranga e la spacca in testa al primo africano che trova. E che magari sarà uno pure nato in Italia. Così si crea la Francia di domani, il terrorismo islamico degli sbandati, dei reietti, dei lupi solitari che cercano nella violenza l’affermazione di sé. La criminalizzazione degli Ahmed e dei Mohammed, che non possono prendere la metro senza essere guardati male almeno una volta al giorno.

L’aggressore di ieri notte a via Marsala di certo non ha pensato a tutto questo. Ha solo pensato: “un’altra giornalista che viene a sputarci addosso”, così che domani – in seguito a questo servizio – faranno un altro sgombero a Roma come è successo a Milano. Sgomberi che sappiamo tutti essere ciclici e del tutto ininfluenti su un piano processuale. Almeno capiamoci su questo: gli sgomberi a Milano centrale ci sono da anni, e sono state messe le barriere apposta per non avere i senzatetto in stazione. A Milano come a Roma, le stazioni sono state blindate, per eliminare il degrado. I senzatetto sono andati a dormire fuori, altri trovano accoglienza o supporto nelle tante strutture sorte nelle vicinanze delle stazioni, come la Caritas a Roma, proprio su via Marsala, o Sos help a Milano.

Le stazioni sono cambiate, dovevano essere un simbolo del progresso, della comunicazione. E nel 1925 Mussolini creò il Ministero delle Comunicazioni proprio per gestire la politica ferroviaria nazionale. I treni dovevano mettere in comunicazione, le stazioni essere semplici luogo di passaggio, non c’erano immigrati, ma solo emigranti. Questa era l’Italia senza immigrazione, per chi avesse – malauguratamente – nostalgia. L’Italia in cui i nostri antenati hanno sofferto la fame e la violenza, tempi di cui non vogliamo riconoscere gli eredi nei nostri vicini di casa del Mediterraneo. Vicini di casa che vengono magari non da una guerra fatta di armi, ma la guerra per la sopravvivenza, come tutti noi. Come gli africani del servizio TV, che magari non scappano tutti da Boko Haram, ma di certo hanno il diritto di viaggiare e cercare opportunità migliore come fanno molti italiani all’estero, aiutati da un passaporto del colore giusto.
L’aggressore di via Marsala magari non ha pensato alle prigioni in Libia in cui i centroafricani vengono derubati e picchiati. Quel violento non ha nessuna intenzione di ringraziare l’Italia per l’accoglienza, con i suoi 3.50 al giorno, i pasti caldi gestiti da cooperative varie, un posto letto e un orario di ingresso e uscita. Lui sta per strada a mezzanotte a Termini e invece di parlare in Tv e chiedere aiuto, facendo commuovere gli spettatori, decide di rompere la telecamera. Di rinunciare a qualsiasi tipo di dialogo con questa Italia che pure lo ha accolto e che lo sta lasciando morire nella sua violenza e frustrazione. L’Italia che obbliga i migranti a diventare pazienti, ad aspettare una risposta alla richiesta di asilo politico, ma senza la possibilità di lavorare.
“A Mineo non facevamo niente, solo fumare sigarette e parlare, che potevamo fare, non si poteva lavorare, ma se non lavori impazzisci”, mi raccontava John, un nigeriano che ora fa il bracciante in Puglia. “Al sud sto meglio, perché non hanno lavoro neanche loro e così ci arrangiamo tutti, a Roma l’affitto costa troppo, non potevo stare qua”. John l’avevo incontrato a mezzanotte proprio lungo via Marsala. Era impaurito dal fatto che avessi un monopiede in mano (di quelli usati per filmare), ma dopo aver capito le mie intenzioni non bellicose, mi aveva raccontato la sua prima notte a Termini.
“Sono arrivato stasera a Roma alle 22, ho speso 2 euro per un cappuccino e sono rimasto dentro al bar a sorseggiarlo fin quando hanno chiuso la stazione”, mi racconta. Vuole fare il calciatore, ma a Napoli non ha sfondato. Ha ancora 25 anni, e da allora ha dormito una settimana di fila in stazione, dicendo che ogni notte sarebbe stata l’ultima. John è vestito pure bene (ma sempre gli stessi vestiti), ha un telefono vecchio perché quello di prima gli è stato rubato. Non fuma e non ha mai spacciato, preferisce stare da solo. “Non voglio stare dai miei compaesani perché non mi piace vendere le borse per strada, è troppo rischioso”.
L’aggressore di ieri sera a via Marsala magari non ha pensato a Magatte Miang, senegalese morto ieri durante la fuga dalla polizia anti venditori abusivi, in circostanze tutte da chiarire.

E magari l’aggressore non conosce “Matrix”, “La gabbia” e tutte le altre trasmissioni che quotidianamente seminano odio tra i teledipendenti di tutta Italia.

Di sicuro ha fatto malissimo ad aggredire una giornalista, e la violenza, ripeto, è inaccettabile, ma è anche inaccettabile fare finta che sia normale mettere in allarme le persone senza aggiungere niente di nuovo per chiunque vive le strade di oggi.

Ci sono ogni giorno casi di violenza e sopruso, che viviamo quotidianamente nei mezzi pubblici e nelle piazze, e ai quali non rispondiamo se non con odio o vendetta premeditata. L’unica soluzione però, secondo me, è riprendere a vivere gli spazi pubblici, #occupythestreets bivaccare noi, la generazione dei precari con il culo al caldo, i gypster, hipster per via dei nostri skill al computer, gypsy a causa della mancanza di lavoro. Vivere la piazza, le stazioni, studiare la realtà che si ha la presunzione di raccontare in una mezz’ora di diretta Tv. Certo, chi lavora non ha tempo di farlo – beati voi.
E’ quello che ho cercato di fare a Termini per oltre due anni, con TerminiTv: dare una faccia, una storia “all’aggressore”, ed evitare che questa aggressione avvenga. Un lavoro del tutto volontario, che dal punto di vista giornalistico ha francamente aggiunto ben poco, perché di fatto i senzatetto in videocamera vogliono solo raramente parlare, ma che dal punto di vista umano ha significato qualcosa. Prevenire, dialogando, la rabbia incontrollata che porta alla violenza. Questo mi aspetto dallo Stato, dalla Tv pubblica. Si parla tanto di periferie, e di come queste vengano raccontate solo quando ci sono eventi violenti. E lo stesso succede nelle stazioni, che pure sono centrali.
Una volta mi chiamò la Rai, che voleva fare un servizio Tv sui “barboni” a Termini. Gliene portai uno, rigorosamente italiano, così avevo chiesto la produzione. Si mise a piangere durante la trasmissione Tv, per via della storia di un altro intervistato, che aveva perso la moglie. In seguito alla trasmissione, gli fu offerto un posto dove stare. Parlare con un “barbone” alla volta, anche senza spettacolarizzazione, con le telecamere spente, questo è quello che dovrebbero fare i giornalisti, responsabili di una narrazione più grande di loro. Parlare e chiaramente guardarsi le spalle, perché comunque l’odio verso i giornalisti Tv è già ben impiantato nella popolazione che appartiene alle categorie più disprezzate, a partire dai rom.
L’aggressore non ci ha visto più, ha pensato che avrebbero parlato male di lui, di loro che cercano di dormire lungo via Marsala, prima di essere cacciati all’alba dalle macchine pulenti di Grandi Stazioni, che puntualmente arrivano a dare il buongiorno a suon di spruzzi d’acqua e sapone. Dopo aver dato la buonanotte, sempre su quei marciapiedi, che rimangono spesso bagnati fino a tardi, proprio per evitare “il bivacco”.
“Hanno fatto bene a fare l’intervento a Milano Centrale”, mi dice un giornalista, “quei bivacchi sono ‘l’humus’ di certa roba”. E siamo d’accordo, anche se “certa roba”, non si risolve togliendo i bivacchi, ma le cause per cui le persone finiscono per strada. I bivacchi si evitano dando supporto serio a chi ha problemi di droga. Facile a dirsi, e comunque ci saranno sempre i drogati e i violenti, ma già iniziare mandando psicologi e mediatori culturali invece che poliziotti, non sarebbe male.

I bivacchi si evitano creando centri d’accoglienza nei tanti spazi abbandonati o sfitti delle nostre città. Basti pensare a Baobab, a Tiburtina, un’associazione volontaria che da sola si è fatta carico di aiutare l’ospitalità di centinaia di migranti nell’arco di due anni. E invece di ringraziarla istituzionalmente, mettendole a disposizione l’utilizzo di spazi più idonei all’accoglienza – servizi igienici soprattutto – si erge a eroina da parte della sinistra bene, e a nemica da parte delle istituzioni preposte a trovare soluzioni, e non fomentare polemiche. La soluzione sarebbe giocare meno a eroi e nemici, e rimboccarsi le maniche e risolvere i problemi, specialmente riguardanti politiche di asilo, a livello europeo, caro affitto e sfruttamento lavorativo a livello nazionale e locale.
D’altro canto però non si può soltanto prendersela con il ministero dell’Interno, che anzi spesso deve forzare gli amministratori locali a ospitare i richiedenti asilo. Sono 131mila i richiedenti asilo in Italia, e Alessandro Lanni, un collega esperto di data journalism, ci mostrava come questi riempirebbero meno della metà del Circo Massimo, a Roma. E’ chiaro quindi che una soluzione è possibile, ma devono contribuire anche i media, perché essi spesso dettano l’agenda politica, per motivi vari e a volte opachi. Raccontare il degrado va pure bene, e rispetto i colleghi che hanno il coraggio di lavorare in situazioni difficili, ma chiediamoci perché molte persone odino i giornalisti. Non è perché tutti abbiano qualcosa da nascondere che sveleremo noi, ma perché spesso si tratta di comunicazione tendenziosa, di un costante lanciare il sasso e ritirare la mano.

“Le residenti hanno paura di voi arabi”, diceva ieri una giornalista in un servizio andato in onda su “La gabbia”, riferita a un gruppo di uomini sulla quarantina. “E anche noi abbiamo paura di lei”, rispondeva uno degli arabi, rivolgendosi alla giornalista. Ed entrambi hanno ragione a temersi, perché c’è chi ruba le case – si parlava del racket delle occupazioni abusive a San Siro – e chi ruba l’immagine. Certo, si può filmare di nascosto se si tratta di un’investigazione, ma qual era lo scopo di filmare i senzatetto ieri a via Marsala? Con quale diritto si filmano le persone che dormono a terra, senza parlare con nemmeno una di loro, soltanto per fare audience e creare un po’ di “sana indignazione” nazionale prima di andare a dormire?
Se non hai un intervistato, se non stai parlando con qualcuno, che siano volontari o senzatetto, che scuse hai per filmare? Chi filmi, dei semplici passanti o più particolarmente dei “barboni”, dei “clandestini”? Non credo sia legittimo filmare delle persone senza parlare con loro, usandole però come oggetto della propria narrazione giornalistica. “Abbiamo parlato con loro, ci dicono che sono perlopiù stanziali”, dice la giornalista, prima di essere aggredita. Non è neanche mezzanotte, ed è stata una scelta coraggiosa la sua, di filmare a Termini senza chiedere l’assistenza preventiva di volontari, o anche delle forze dell’ordine. Coraggiosa, ma anche superficiale. Non si può pretendere di venire accolti a braccia aperte in un’ora in cui le persone stanno cercando di dormire, indirizzandosi a loro come “problema sociale”. Le hanno detto che sono stanziali, bene, e perché non lo ha filmato? Perché non volevano forse essere filmati, ma lei ha voluto comunque filmarli a distanza.
Forse non è chiaro a molti giornalisti che non si possono filmare “i barboni” senza il loro consenso, e questo perché per i senzatetto, la strada su cui dormono è “casa”, e quindi, essendo luogo di intimità, costituisce il fulcro della loro privacy.
Dubito quindi che la troupe in questione abbia chiesto il permesso di filmare a qualcuno. E non si trattava di filmare chiunque, come in un qualsiasi servizio televisivo. Servivano proprio loro, “i negri”. Chiamiamoli pure così, se dobbiamo trattarli come tali.

Il cameraman ha fatto il suo mestiere, cercando di filmare le persone da più vicino possibile, e nel frattempo la giornalista parlava, senza accorgersi dell’aggressore. Io credo però che un servizio del genere sia pure un’aggressione, non violenta, certo, ma parte di un sempre più marcato sdoganamento dell’odio razziale.

Perché va di moda così, contiamo i numeri, gridiamo all’emergenza, chiediamo sicurezza, tutta un’ammuina come se si fosse al mercato di chi si indigna di più.

Se arriva un’inondazione, in genere non basta mettere un asciugamano sotto la porta. Ed è esattamente quello che si fa, ogni giorno, a Termini e in altre stazioni italiane.

Viviamo in una situazione in cui la grande maggioranza delle persone “normali” si frustra giorno per giorno per via dell’acqua che sale verso la propria porta. Ogni giorno la misura è più colma, la rabbia del pendolare che torna in stazione tra due ali di disperati e militari, senzatetto e guardie di sicurezza, la scostanza della protezione aziendale che fa perdere il treno a chi arriva alle barriere ai binari, la stanchezza dei lavoratori della zona, stufi della situazione, ognuno perso nel proprio fastidio, in cui si inabissa anche il più minimo barlume di speranza nell’umanità. Poi torniamo a casa, guardiamo la tv, e ci sentiamo ripetere che un nemico c’è, è l’Islam, sono gli arabi, gli africani, gli zingari. Giorno dopo giorno così, frustrati di giorno e indignati prima di andare a dormire.
“Io vengo a Termini perché è pieno di polizia, qui è più sicuro di dove stavo prima”, ammette candidamente Maruan, che stanotte dormirà su questo cartone, tra i piloni di cemento messi apposta per non far dormire quelli come lui. Ma quelli come lui non sono lui. E fin quando continueremo a usare queste macrocategorie, a contare le persone senza contarle come persone, non usciremo mai dalla logica dell’emergenza. Il bivacco c’è, senza dubbio, ma perché secondo voi lo fanno alla luce del sole, nei luoghi più in vista delle città? Perché questo posto è più sicuro anche per loro, e infatti chi ruba a Termini, io ne conosco diversi, non ha nessun interesse a fare casini. A rubare, spacciare, prostituirsi sono spesso le persone che sanno come comportarsi, che odiano gli altri, ma mai quanto odiano se stessi per essere finiti in quella situazione. Non hanno nessun interesse a creare casini, vogliono solo il cash. Chiamare le camionette e portarli via in massa significa solo dare una pacca sulla spalla al loro autolesionismo, invogliarli a fare i lupi solitari, a buttarsi sulla violenza tout court, perché violenza genera altra violenza, e l’isolamento sociale li porta dritti dritti nel crimine. Io a Termini, invece dei soliti panini, manderei psicologi, psichiatri, musicisti, artisti sociali, cercherei di capire chi è recuperabile e con quale percorso. Ci sono persone che hanno dormito a Termini al momento del loro arrivo a Roma, e si sono poi creati una vita normale. Non è impossibile, ed è l’unica opzione. Cercare, parlare, distinguere, conoscere.

C’era una volta un paese senza bivacchi. Era l’Italia degli anni ’80. Un paese che non aveva emergenze né razzismi, se non verso i “terroni”. C’erano i napoletani e i siciliani, c’erano i cartelli “non si affitta ai terroni”, ma, si dice ora, non c’era l’emergenza, perché eravamo tutti italiani. Abbiamo imparato a conoscerci, e finalmente quel razzismo se ne è quasi andato, ma sfortunatamente è stato rimpiazzato da un altro, ancora più pericoloso. Se vogliamo evitare che questa situazione porti alle rivolte delle banlieue parigine o dei London riots però, bisogna iniziare a pedalare e fare l’unica cosa che davvero siamo bravi a fare come italiani: arrangiarci. Tirare fuori il meglio di noi in una situazione di costante emergenza, ogni giorno, agire come comunità, che tiene ai propri quartieri. Bisogna chiedere politiche che levino alla criminalità organizzata la leadership come “datore di lavoro” di chi vive per strada. Legalizziamo le droghe leggere, costruiamo più alloggi sociali, creiamo politiche di riutilizzo e ripristino dei luoghi abbandonati, chiudiamo i campi rom, investiamo sull’insegnamento dell’italiano e sulla formazione professionale. Si tratta dell’unica opzione al chiudere le persone in prigioni da cui usciranno – sempre se ci entreranno – ancora più cattive e isolate di prima.

E soprattutto, facciamo sì che le persone possano muoversi liberamente come lo fanno le merci. Basta forzare tutti a chiedere l’asilo politico, viva i migranti economici, che possano investire i loro soldi nel vivere qui e iniziare un’attività, invece che darli ai trafficanti di esseri umani. Diamo loro i visti direttamente nei loro paesi di provenienza, scegliendo i profili più adatti, ma comportandoci da Stato serio, che non chiama tutto “emergenza”. Iniziamo facendo sì che la parola “clandestino” non diventi il nuovo “ebreo” di nazista memoria.

Le foto sono di Iason Athanasiadis, Jacopo Borgogno e Mara Mancuso

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.