Immigrazione
Iniuria soli
Il linguaggio sbagliato produce idee sbagliate, generatrici di leggi nocive. La riforma della cittadinanza è indirizzata al solito, stucchevole e inutile scontro di tifoserie. Specie se continueremo a discettare di ius soli.
Quello, al contrario di quel che crede di sapere qualche pappagallo del latinorum, non è un diritto individuale, men che meno dei popoli, ma un diritto imperiale. Nella Roma antica si era cittadini romani se figli di cittadini romani (ius sanguinis). La musica cambiò quando l’impero divenne immenso, talché il concetto divenne: sei nato dentro il territorio dell’impero, quindi sei suddito dell’imperatore e a lui devi pagare le tasse. Tanto che dalla Costitutio Antoniniana, emanata dall’imperatore Caracalla nel 212, erano esclusi, guarda caso, i dediticii, ovvero quanti si erano spontaneamente arresi e sottomessi, consegnando i loro beni ai vincitori e perdendo il diritto a fare testamento. Quelli potevano restare cittadini di quale che sia altra statualità o tribù. Che ius soli, nell’alticcio dibattito odierno, sia divenuto sinonimo di libertà e conquista individuale segnala il livello sotto suolo delle conoscenze medie.
Si aggiunga che in ere a noi assai più vicine quel diritto del suolo è stato fatto valere non per aprire, ma per chiudere all’influenza esterna. Negli Stati Uniti lo adottarono perché ex colonie, con le originarie case regnanti che ancora accampavano pretese di sovranità, sicché stabilirono: chi nasce qua è un vero americano e solo chi è nato negli Usa potrà essere eletto presidente. Con tanti saluti al Regno Unito, la Francia e la Spagna.
Torniamo a noi. Avere bambini che sono nati in Italia, hanno frequentato le scuole italiane e parlano con la cadenza dei loro coetanei, ma non sono cittadini italiani, è un non senso. Che chi paga le tasse in Italia, vivendoci, non possa votare neanche alle amministrative, mentre chi non ha mai messo piede in Italia e non ha mai versato un centesimo all’erario possa, per il solo fatto di discendere da italiani, votare per le Assemblee legislative, è un obbrobrio. Anche questi sono frutti propagandistici di un nazionalismo tanto nostalgico quanto sciocco.
Veniamo alla legge in discussione. Non prevede affatto che chi nasce in Italia sia automaticamente cittadino italiano (quindi la gran parte delle polemiche è campata in aria), ma è necessario che almeno uno dei genitori sia legittimamente stabilito dentro i nostri confini. Posto ciò, trovo che sia un errore. Anche in questo caso figlio della zuccherosa e venefica retorica del politicamente corretto. Si dovrebbe stabilire: solo se partorito da una donna con regolare permesso di soggiorno e solo se i genitori lo desiderano (altrimenti, eventualmente, il pargolo potrà provvedere per i fatti suoi, una volta raggiunta la maggiore età). Ciò perché la paternità è notoriamente incerta e se si vuole evitare l’orrido mercato delle partorienti inviate in Italia, con quello parallelo dei falsi riconoscimenti di paternità, la sola cosa che si deve fare è legare a quelle la legittimità territoriale.
C’è di più: ciascuno di noi è cittadino italiano o francese o tedesco, ma tutti siamo cittadini europei, quindi, a volere essere seri, occorre armonizzare, meglio ancora ugualmente regolare, l’acquisizione della cittadinanza in un qualsiasi punto dell’Unione europea. Farsi ciascuno la propria legge significa non avere compreso la più importante premessa. L’Italia, che è anche fra le frontiere più esposte e sensibili, avrebbe fatto bene a rendersi promotrice di un simile processo. A beneficio proprio e dell’Unione intera. Invece, manco a dirlo, s’è avviata la solita fiera degli sbandieratori, animati da una faziosità ideologica che alle ideologie ha sostituito il sentimentalismo: c’è chi vuole apparire buono e chi ci tiene a sembrare cattivo. Entrambe sono inutili e dannosi. Uno spettacolo poco commendevole. Purtroppo non inedito.
www.davidegiacalone.it
@DavideGiac
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