Immigrazione

Il virus invisibile che disvela il popolo invisibile degli emarginati

21 Aprile 2020

La pandemia, che ci tiene col fiato sospeso da giorni e che ha monopolizzato il discorso pubblico e istituzionale, non ha solo risvolti sanitari, ma investe ogni sfera della vita umana. Anche il fenomeno migratorio ha subito un capovolgimento epocale, determinando l’instaurarsi di flussi inediti e inattesi.

Poco prima del blocco (notoriamente “lockdown”, ma da qui in poi blocco o confinamento, se continuerete a leggere l’articolo) molti sono stati coloro che hanno tentato, con mezzi propri o con operazioni di rimpatrio, di tornare nei loro paesi di origine, nelle loro case. Nel frattempo, si è invertita una tendenza ormai data per assodata: le persone hanno abbandonato le città e si sono rifugiate nelle aree rurali, se ne hanno avuto la possibilità. Quattro miliardi e mezzo di persone, ossia poco più di metà della popolazione mondiale, in 110 paesi, sono attualmente nel pieno del cosiddetto blocco sanitario, confinati in varie forme ad una vita di distanziamento sociale e riduzione della propria libertà di movimento.

Mentre molti cittadini europei hanno percepito sulla loro pelle cosa significa non essere i benvenuti al di fuori dei propri confini, flussi inediti hanno coinvolto milioni di lavoratori, tra i quali i lavoratori stagionali impiegati nell’agricoltura, che in questo periodo sono soliti spostarsi verso le campagne, anche lontane, ma che sono dovuti sovente rimanere a casa. Le conseguenze più immediate e palesi sono un impoverimento dei lavoratori e degli agricoltori, ma non solo: a perderci saranno anche i consumatori.

C’è un aspetto positivo in tutta questa drammatica faccenda: molti Stati europei, Italia in primis ma non solo, hanno scoperto o riscoperto l’importanza delle braccia, quelle braccia spesso sottopagate, ora ferme alle frontiere e da tutti ambite. Tutte queste persone sono uscite dalla coltre di invisibilità e sono entrate a pieno titolo nell’agenda europea, che il 30 marzo scorso, in Commissione, ha inserito i lavoratori stagionali tra quei lavoratori che svolgono mansioni indispensabili e ai quali deve essere consentito muoversi, oltrepassare le frontiere vecchie e nuove che si sono irte sul suolo europeo. In Europa, sono per lo più rumeni, polacchi e bulgari, i quali, prima del covid, erano additati come invasori e ladri di lavoro,  quelli ora invocati da tutti, anche da quegli Stati che applicano la chiusura delle frontiere. Improvvisamente, questi lavoratori (braccianti agricoli, ma anche colf e badanti) sono ritenuti indispensabili, al pari degli operatori sanitari.

La pandemia, quindi, potrebbe rappresentare un’occasione per dare finalmente tutele a questi lavoratori fantasma, sfruttati e sottopagati, ma potrebbe anche rappresentare un’occasione di strumentalizzazione delle sofferenze. Continuare ad emarginare questi lavoratori si sta rivelando controproducente, ma l’esito verso maggiori garanzie sul lavoro e sulla salute non è affatto scontato.

In Italia aleggia la proposta di reintroduzione dei voucher, col rischio così di incrementare la platea degli sfruttati, consolidando peraltro la marginalità sociale. Ma questa non è l’unica proposta, c’è anche quella della regolarizzazione. Secondo quanto emerge dalle ultime dichiarazioni, il nuovo piano del governo, o meglio dei Quattro Ministri coinvolti sulla questione del lavoro agricolo (Bellanova, Lamorgese, Provenzano e Catalfo, rispettivamente all’Agricoltura, agli Interni, al Sud e al Lavoro e Politiche sociali) prevederebbe la regolarizzazione per motivi sanitari e di lavoro di 200 mila braccianti. Se in Italia si stima ci siano circa 610 mila irregolari – peraltro ogni giorno in aumento, soprattutto dopo che il permesso per motivi umanitari è stato di fatto abolito – 1/3 di questi verranno finalmente regolarizzati: avranno un’identità, un permesso di soggiorno e dei diritti che altrimenti non spettano agli invisibili. Ma gli altri 400 mila rimarranno nell’invisibilità, o meglio costretti spesso a vivere nei cosiddetti insediamenti informali, che altro non sono che ghetti, ove le condizioni igienico-sanitarie sono – per usare un eufemismo – precarie, ove non c’è spesso acqua, non ci sono toilette e il reperimento di cibo è sovente associato al rischio di essere fermato dalle forze dell’ordine in condizioni di irregolarità.

Ne abbiamo parlato con un medico in prima linea in questa battaglia contro la marginalità e la disumanità di questi luoghi, Alessandro Verona, Referente Medico dell’Unità Migrazione di Intersos, ong che lavora in 19 paesi in mondo tra cui l’Italia, in particolare in Puglia, nel foggiano.

“A Foggia abbiamo aperto l’attività (d’emergenza corona virus) il 24 di febbraio, a Roma i primi di marzo – ci ha spiegato  il dottor Verona – Il bacino di utenza è intorno alle 2400 persone a Foggia (nel raggio di circa 50 km dal capoluogo, in 7 insediamenti informali). A Roma ci rechiamo in 6 insediamenti urbani, che comprendono anche Termini e Tiburtina, e ci aggiriamo intorno alle quasi 2000 persone. In Calabria, grossomodo la stessa cifra in 6-7 insediamenti informali tra due province sullo Ionio”.

Il dottor Alessandro Verona, Referente Medico dell’Unità Migrazione della ong Intersos

L’attività di Intersos  sui territori sopracitati vede il coinvolgimenti di unità mobili: due a Roma, due a Foggia, cui si affianca un autoveicolo con a bordo un medico, una in Calabria. Queste unità mobili si recano giornalmente nei cosiddetti insediamenti informali, che sono in realtà luoghi molto vari. A “Roma sono stazioni, palazzi abbandonati. A Foggia quattro masserie e una fabbrica abbandonate, di dimensioni varie, sono state trasformate in baraccopoli.  Solo l’insediamento di Borgo Mezzanone conta 1100 persone ed è antistante al Car. Il Gran Ghetto conta circa 700 persone. Nelle baraccopoli, molto frequenti sono gli incendi per problemi legati al riscaldamento, ad allacci scorretti e alla prossimità delle baracche, oltre all’ovvia incendiabilità delle baracche, che altro non sono che città erette sulla negazione di diritti e quindi abitate dagli scarti della città. Tutti i materiali sono di recupero, rimediati tramite vendite informali oppure tra i rifiuti. Prima che Foggia si chiudesse, si vedevano tutti i giorni persone impegnate a recuperare dalla spazzatura oggetti utili a queste finalità. Sono non luoghi che si costituiscono da una parte in modalità di estrema sofferenza del diritto del lavoro, dall’altra anche come risposta nei riguardi di coloro cui è stato negato tutto: il lavoro, il rispetto, l’inclusione e molto spesso i documenti.

Ma la domanda cruciale è perché nasce un ghetto e perché questo si basa sull’invisibilità. Un ghetto nasce soprattutto, come ci ha raccontato il dottor Verona, nelle zone ad alta intensità di lavoro agricolo per tre principali ragioni. La prima perché le persone non hanno tutele sul lavoro e non c’è un sistema efficace di inserimento nel lavoro. La seconda perché non c’è affatto un sistema di inserimento abitativo basato sulla dignità. In ultimo, perché queste persone non hanno diritto ai documenti. Al momento, la percentuale di coloro che non possono ambire a documenti sfiora il 50%, ma è una quota destinata ad aumentare. Questa quota è in crescita in conseguenza del primo decreto sicurezza promosso dall’allora Ministro dell’Interno Salvini, poi convertito in legge 113 nel 2018, il quale determina di fatto l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Ex pista aeroportuale di Borgo Mezzanone (Foggia) – foto di Alessandro Tricarico

“La maggior parte delle persone che vivono in questi insediamenti avevano permessi  umanitari e hanno avuto a disposizione questi ultimi 18 mesi per cercare di convertire il proprio permesso in lavoro – ha aggiunto il Referente di Intersos in prima linea ogni giorno nel foggiano – Molti non ce l’hanno fatta e sono finiti nell’oblio, ossia privi di qualsivoglia permesso. Quando si è senza un permesso di soggiorno non si può avere un contratto, si è costretti a lavorare in nero. Noi andiamo a contrastare i meccanismi del lavoro irregolare, sia il nero che il grigio, ma ovviamente fintantoché  ci saranno persone che lavorano nell’invisibilità, quest’ultime saranno meno tutelate da tutti i punti di vista. Si lascerà il serbatoio aperto per il lavoro nero”.

Intersos ha firmato diverse campagne che chiedono al più presto una sanatoria per tutti i migranti irregolari. Recentemente, la ong ha aderito alla lettera promossa dalla Cgil, rispondendo all’incontrovertibile bisogno dei lavoratori di essere riconosciuti come tali e con sé tutto quello che comporta una regolarizzazione.  “Dobbiamo togliere la foglia di fico patetica che nasconde le persone invisibili – ha asserito inoltre – le conseguenze non sono solo umane, ma anche l’indotto economico, ma soprattutto sociale, ne trarrebbe beneficio”.

Di una sanatoria ce n’era bisogno ben prima di adesso e una non azione sarebbe controproducente e insostenibile. Il nuovo governo non ha fatto nessun passo in avanti, come sostiene lo stesso dottor Verona: “Le persone continuano a morire in mare. E non è un’epidemia da corona virus, che peraltro è più intensa in Italia, a poter giustificare il fatto che si muoia in mare. E’ inqualificabile e inaccettabile”.

 

Insediamento informale di Poggio Imperiale (Foggia)

Quella di una sanatoria è solo una delle azioni che potrebbero ridare un po’ di dignità a queste persone, ma intanto la quotidianità nei ghetti è drammatica e il corona virus ha fatto emergere con maggiore evidenza quelli che sono ostacoli insanabili ai fini di una corretta prevenzione del contagio.

In una baraccopoli, d’altronde, la trasmissibilità del virus è ancora più potente, sia per la questione dell’igiene sia per la questione della prossimità. Le persone che vivono in questi non luoghi sono costrette alla promiscuità e non hanno i mezzi per porre rimedio alle pessime condizioni igieniche in cui vivono. “Ad oggi, l’unica Regione che ha risposto al nostro appello è la Regione Puglia, dopo due anni di intenso lavoro sul territorio – ci ha raccontato il dottore di Intersos – Se tutto va bene presto l’acqua sarà fornita. Saranno messe toilette dove non ci sono mai state e il cibo sarà garantito, in particolare nei punti più critici. Le derrate alimentari saranno fornite tramite la Regione, che ha quantificato il bisogno secondo quanto gli abbiamo riferito. Sarà la Protezione Civile a distribuirlo”.

A tali conquiste di prima necessità si aggiunge il lavoro degli operatori nell’informare gli abitanti dei ghetti mediante sessioni che durano dai venti ai trenta minuti, con gruppi di massimo dieci persone. Un medico, affiancato da uno o due mediatori linguistico-culturali, si occupa di queste informative, che tuttavia sono ben diverse da quelle che ci immaginiamo in qualsivoglia altro contesto. La promiscuità, la prossimità e le condizioni igieniche precarie impongono tutt’altra prassi, nonché un isolamento ancora più rigido di questi contesti. “Questi sono luoghi che non esistono per nessuno, ma che a volte emergono in superficie se qualcuno che li vive li racconta – ha sottolineato il dottor Verona – Le persone reagiscono con attenzione e quando vengono dati i dispositivi di protezione ne hanno cura e ne fanno un uso corretto. Cosa che tra l‘altro forse non si può dire in altri contesti più normali e quindi apparentemente più sicuri”.

Non esiste solo un problema igienico-sanitario in senso stretto, di prevenzione del contagio, poiché anche solo un caso di positività in un contesto del genere si tradurrebbe in un focolaio inarrestabile. C’è anche un’altra questione di cui non si parla mai, ma che è estremamente importante, quella della salute mentale di queste persone. “Quello che sovente queste persone mi dicono è: ‘A noi fa più paura vivere qua dentro che il corona virus’ –  ci ha raccontato il Referente di Intersos – In questi contesti, la salute mentale è un elemento centrale che unisce tutti, ma chi è in una situazione di marginalità, di fragilità, è molto più esposto“.

L’assenza di prospettive di futuro genera mostri. Una persona che vive in un ghetto vive una condizione perenne di precarietà e al contempo di immobilismo. Queste persone sono intrappolate in tali contesti e intrappolate nei loro stessi pensieri. “Se un qualche obiettivo viene interdetto e non c’è soluzione, la persona si va a sfracellare sui propri pensieri – ha affermato il dottor Verona –  Tutte le persone che sono qua sono passate per la Libia e si portano dietro ferite sia fisiche che impalpabili, fatte di ricordi terribili, che non si rimarginano”.

Ex pista aeroportuale di Borgo Mezzanone (Foggia)

Il lavoro di Intersos e dei suoi operatori è quindi su diversi piani. C’è un piano strettamente quotidiano, di lavoro giornaliero sul territorio, e c’è un piano cosiddetto di “advocacy”, che punta a spostare risorse e sensibilità istituzionali nella direzione in cui serve. C’è poi un piano personale che si mescola a quello collettivo e che produce individui  portatori di una consapevolezza comunitaria. Il lavoro in questi contesti è fatto di sconforto e soddisfazione, ma anche di crescita umana.

“Lo sconforto viene quando si individualizza troppo il problema – ci ha confidato – ma quando ti percepisci come un elemento in una catena, il tassello di un mosaico di supporto a persone che sono in condizioni difficili, le cose cambiano. Le condizioni sono tali perché queste persone hanno perso la lotteria biologica, non per scelta. In quei corpi ci potremmo essere tutti noi, chiunque. Presa questa consapevolezza, diventa tutto più gestibile. In questo momento, ci sono soddisfazioni e sconforti nel lavoro quotidiano. Ma le soddisfazioni più grandi vengono quando le istituzioni recepiscono il nostro lavoro e riescono a fare azioni macroscopiche, dopo avergli fornito gli elementi ai quali non si potevano esimere dal rispondere”.

“Ma l’eredità che tutti gli operatori hanno è il senso di comunità ha concluso il dottor Verona – Quello che dobbiamo riportare a casa, quando poi da casa potremo uscire, è il senso di comunità, di bene comune: comprendere che in tutta questa vulnerabilità ci riconosciamo uguali a prescindere dal titolo di soggiorno, a prescindere  dal lavoro che fai e da dove abiti. Sembra banale, ma il criterio di solidarietà oggi più che mai deve essere vivo anche se sembra che l’individualismo possa rafforzarsi. C’è un bisogno di mutualismo e anche di riscoprirci comunità sul piano della salute pubblica. Al termine di questo lungo periodo di confinamento, dovremo chiedere con forza la restituzione di un sistema sanitario unico e nazionale, poiché il sistema sanitario attuale, regionale, genera disuguaglianze di salute, del vivere, che non sono più accettabili. L’emergenza ci ha trovato disarmati di fronte a questa vulnerabilità, che è in ultima analisi politica.

 

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