Immigrazione
Ieri Aylan è morto altre sei volte. Purtroppo non abbiamo le foto…
Le agenzie di stampa turche parlano di almeno sei i bambini annegati al largo delle coste occidentali del paese, dopo che nella giornata di ieri le precarie imbarcazioni su cui galleggiavano per raggiungere la Grecia sono affondate. Il mare ha restituito i piccoli corpi di quattro di loro, spiaggiandoli nei pressi della località di Ayvacik. Il gommone su cui viaggiavano era troppo carico e non ha retto. Troppi quei cinquantacinque disperati sulla rotta per Lesbo.
Altri due bambini, di origine siriana, rispettivamente di uno e quattro anni, sono invece morti in seguito al naufragio del barcone su cui si trovavano a largo di Bodrum. La destinazione del viaggio in questo caso era Kos. Gli altri diciassette passeggeri sono stati recuperati sani e salvi.
È sempre di oggi la notizia che il Canada avrebbe concesso il diritto di asilo alla famiglia di Aylan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni annegato a settembre con la mamma e il fratello mentre cercava di raggiungere la Grecia su un barcone. Per chi soffre di memoria corta, Aylan era il soggetto di quella foto di cui si è tanto discusso, il suo corpo senza vita è stato fotografato sulla spiaggia di Bodrum scuotendo l’opinione pubblica di tutto l’occidente.
Per queste ultime due stragi, sfortunatamente, non abbiamo foto di quel tipo. Ma dato che noi europei ci vantiamo tanto di essere “la culla della civiltà e del pensiero”, sforziamoci per qualche attimo e proviamo a immaginare quei sei cadaveri. Sono immobili, il colorito della loro pelle tende al viola e i loro corpi sono sformati e gonfi d’acqua. Immaginiamo ora i loro genitori, la disperata ricerca dei loro piccoli negli attimi successivi al naufragio, la loro disperazione nel non trovarli più, le inutili bracciate nell’acqua gelata. Già che ci siamo, proviamo anche a sentire il freddo fin dentro le ossa, magari aiutandoci aprendo per qualche attimo una finestra di casa.
La triste verità è che i corpi di quei sei bambini annegati come il piccolo Aylan non faranno il giro del mondo e non si scatenerà alcuna polemica sull’opportunità o meno di pubblicare sui giornali gli scatti dei loro cadaveri. La loro fine non sarà dunque “nobilitata” dal chiacchiericcio di noi privilegiati perché nessuna “fortunata” fotografa si è trovata lì sul posto come accadde a Nilüfer Demir, la fotoreporter dell’agenzia turca Dogan, che dichiarò in un’intervista di “essere venuta al mondo per scattare quelle foto e per scrivere quella storia”.
Un peccato, perché in questa nostra società regredita dove la plebe guarda solo le figure e non legge volentieri più di centoquaranta caratteri, le immagini di quei sei corpi avrebbero potuto svolgere una funzione educativa e sarebbero diventate dei simboli, magari solo per qualche giorno, come quella del giovanissimo siriano annegato a settembre. Forse avrebbero persino raccontato a qualche mente non ancora del tutto compromessa dall’idiozia che su quelle imbarcazioni non ci sono i terroristi del Bataclan, ma eserciti di disperati in fuga da quei medesimi criminali.
Sì, davvero un peccato. Senza le loro foto simbolo, quei sei bimbi affogati – quattro afghani e due siriani – sono solo gli ennesimi morti anonimi già finiti in un dimenticatoio ancora più profondo del mare che li ha inghiottiti. Lo stesso dimenticatoio in cui finiscono tutte le vittime di questa guerra che ci ostiniamo a non voler vedere, se non quando arriva nelle città dove ci scattiamo i selfie o quando una “fortunata” fotografa riesce per caso a immortalarla su una spiaggia.
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