Geopolitica
I 5 paesi da cui arrivano più sbarchi nel Mediterraneo
Per meglio comprendere il flusso migratorio delle persone che attraversano l’Europa, UNHCR tiene un aggiornatissimo dossier in cui viene documentato il paese di origine dei rifugiati, il numero di chi sbarca e quale sia il punto di destinazione delle principali rotte. Tutta l’attenzione mediatica e la comunicazione politica hanno continuato ad insistere sugli arrivi via mare, riproponendo la vecchia storia della retorica dell’invasione. Ma è davvero così?
L’Italia ha stretto con la Libia discutibili e onerosi accordi, ma già nel 2017 il numero dei migranti sbarcati nel nostro paese era diminuito di oltre un terzo rispetto al 2016, scendendo a 119.310 casi, attestandosi poi nel 2018 ad appena 23.370, un numero crollato in un anno di oltre l’80% per ridursi poi nei primi 9 mesi del 2019 a soli 7.710 casi.
Sono cifre molto inferiori rispetto ai 39.000 migranti arrivati in Grecia o ai 19.000 approdati in Spagna. Il crollo degli arrivi ha avuto come conseguenze l’intervento della guardia costiera libica che ha riportato molti di coloro che erano salpati dalle coste africane nei campi di detenzione del paese nordafricano, dove sono state documentate sevizie, stupri e torture.
Da dove arrivano i migranti? Ci sono 5 paesi di partenza che prevalgono nei dati raccolti da UNHCR: Tunisia, Pakistan, Costa d’Avorio, Algeria e Iraq. Cerchiamo adesso di capire cosa succede in questi paesi e perché molti dei loro abitanti hanno deciso, nell’ultimo anno, di partire alla volta dell’Europa.
Tunisia
A Ottobre si sono svolte le elezioni presidenziali e a vincere è stato Kais Saied, che, al ballottaggio, ha oltrepassato il 70% dei voti. Saied succede a Beni Essebsi, morto a poche settimane dalla fine del mandato a luglio. Professore di diritto costituzionale, candidato indipendente, il nuovo presidente tunisino è famoso per la sua compostezza che, in campagna elettorale, gli è valsa il titolo di “robocop”.
Di fatto la sua elezione mette uno stop alla rivoluzione dei gelsomini che nel 2011 cacciò dal potere il dittatore Ben Alì, aprendo alla stagione delle primavere arabe. Sebbene la Tunisia sia l’unico paese arabo a sviluppare una democrazia parlamentare, non è ancora riuscita a legittimare la nuova classe politica che è vista dalla popolazione come una continuazione del vecchio sistema, ma soprattutto non è riuscita a modificare la realtà socio-economica nazionale. La disoccupazione è scesa, la povertà relativa è scesa dal 24,4% al 15, ma questo non è abbastanza per gli elettori tanto che il desiderio di emigrare all’estero è aumentato dal 22 al 33% della popolazione (56% tra i giovani dai 18 ai 29 anni d’età). Saied, presentandosi con una lista civica, si è distinto per aver dato manifestazione di una certa sobrietà, senza fare uso di fondi pubblici o appoggi di un partito. La sua lotta alla corruzione e le sue idee di riforme hanno fatto breccia soprattutto nelle periferie e nelle aree più povere del paese. Il nuovo presidente è tuttavia molto refrattario ad un’apertura sui diritti umani, ha reintrodotto la pena di morte, che era stata sospesa dal 1994, e si è detto favorevole all’esclusione degli omosessuali dalla vita sociale del paese, esprimendo anche forti perplessità sulla parità di genere in materia di successione ereditaria. Oltre ai problemi economici, la Tunisia ha interrogativi aperti per quanto riguarda la minaccia del terrorismo, essendo stata teatro di attentati di matrice islamica cui si è aggiunto il consolidamento di forze radicali nel paese. Si stima che oltre mille foreign fighters siano rientrati nel paese dopo aver partecipato all’esperienza del sedicente Stato Islamico o dopo aver fatto parte di altre reti integraliste che hanno preso parte ai conflitti mediorientali.
Proprio oggi il premier incaricato tunisino Elyes Fakhfakh ha annunciato la lista dei 29 ministri che andranno a comporre il nuovo governo, una condizione politica precaria dato che nel Parlamento nato dopo le elezioni dello scorso ottobre vi è una frammentazione in cui nessuna forza politica supera il 25% dei consensi.
Pakistan
Parlando della situazione del suo paese, il professor Kaiser Bengali dell’Università di Karachi ha detto lo scorso anno che “Il Pakistan è sull’orlo del collasso. L’India potrebbe far crollare la nostra economia come gli Stati Uniti fecero con l’Unione Sovietica, i campanelli d’allarme stanno suonando, non abbiamo altra scelta se non chiedere l’elemosina, temo la fame, la povertà e la disoccupazione”. Ad AsiaNews l’esperto dichiara che il quadro è drammatico: “Le vendite diminuiscono, il potere d’acquisto è esaurito. I più colpiti sono i giovani. Una famiglia media non può permettersi di comprare una casa, ma deve condividerla con qualcun altro. L’editoria sta fallendo. Non possiamo neanche più stampare il Corano in Pakistan”. Il ricercatore ricorda che il governo di Imran Khan ha promesso la creazione di 10 milioni di posti di lavoro e la costruzione di cinque milioni di case. Tuttavia il Pakistan è in una profonda crisi economica, con un disavanzo delle partite correnti e riserve estere in rapido esaurimento. Secondo Bengali, il governo “ha lanciato slogan irresponsabili sui posti di lavoro, senza dare alcuna chiara indicazione nei mesi scorsi, per esempio sul consumo dei prodotti domestici”. A complicare la situazione, il fatto che sui media non si parli d’economia e la minaccia del terrorismo: “L’estremismo e le organizzazioni settarie sono il colpo peggiore per la nostra economia. In due anni sono stati uccisi 400 dottori sciiti. Molti industriali hanno abbandonato il Paese per i continui coprifuoco. Gli investitori stranieri preferiscono incontrarsi a Dubai e in altri Paesi”.
Le condizioni di vita in Pakistan sono tra le peggiori di tutto il continente asiatico. Vi è una piccola élite che governa il paese con un alto tasso di corruzione mentre l’economia delle province rimane fondata sull’agricoltura di sussistenza, gli orari di lavoro sono al limite della sopportazione umana e non vi è alcun ritorno economico. Questi sono i principali emotivi dell’emigrazione scelta soprattutto dai giovani anche attraverso canali irregolari dato che il passaporto pakistano non è sinonimo di affidabilità per molti paesi occidentali. Lo Stato spende molti dei suoi averi per mantenere l’esercito a causa delle continue tensioni con l’India e per il pericolo degli estremismi religiosi. I servizi sono quasi del tutto assenti e gli stipendi non permettono di vivere adeguatamente, per non parlare poi dello sfruttamento minorile nelle fabbriche tessili.
Costa D’Avorio
La Costa d’Avorio è il terzo paese per provenienza dei migranti che sbarcano sulle coste del Mediterraneo. Nonostante l’aver dovuto sopportare crisi economiche e una guerra civile, il paese dell’Africa Occidentale si sta lentamente rialzando, rimanendo il maggior produttore ed esportatore di caffè, semi di cacao e olio di palma. È molto ricco di minerali come diamanti, manganese, nichel, bauxite e oro, ma ha anche numerosi giacimenti di petrolio.
Quasi la metà della popolazione ivoriana è al di sotto dei 35 anni d’età e sebbene le autorità locali non sappiano ancora distinguere quanti giovani partano effettivamente alla volta dell’Europa o provengano da altri stati africani, migliaia di essi, ogni anno, rischiano la vita attraversando il deserto. Perché lo fanno? L’aspetto economico non è la sola causa, vi è infatti anche una mancanza di fiducia nel sistema del paese in generale. Alessandro Rabbiosi responsabile per Terre des Hommes Italia in Costa d’Avorio ha dichiarato ad Agi: “La gente, i giovani in particolare, non vedono prospettive concrete, hanno la percezione di vivere in un paese senza sbocchi concreti, incapace di soddisfare le loro ambizioni. Che questa percezione sia reale o meno ancora non lo posso affermare, certamente esiste ed incide”.
Ogni anno partono circa 15.000 persone, un esodo che offusca l’immagine del presidente Alassane Ouattara. Facendo due calcoli però è facile capire il perché dell’emigrazione, uno stipendio medio si aggira attorno ai 100 euro al mese, non ci sono prospettive per avere aumenti sostanziali e sebbene partire abbia un costo di circa 1500 euro i giovani preferiscono tentare la fortuna. Anche in questo caso, per aiutare il paese, sarebbe inutile distribuire soldi “a pioggia”, è utile ragionare meno sull’emergenza e più sullo sviluppo sostenibile e di lungo periodo.
Algeria
Il paese nordafricano è uno dei pochi in cui non è avvenuta la cosiddetta primavera araba, ci furono scontri, manifestazioni ma non riuscirono ad avere lo slancio che ebbero ad esempio in Egitto, Libia o Tunisia. I tassi di disoccupazione sono estremamente elevati e le opportunità di lavoro, anche per chi ha studiato, sono molto esigue. Ad avere la peggio sono i giovani, che quando sono fortunati hanno posti di lavoro precari e mal pagati.
La rivoluzione non è avvenuta – e il presidente Abdelaziz Bouteflika non è stato rovesciato – per una compattezza della sua coalizione al governo, una sfiducia tra le forze di opposizione e l’aver saputo evitare manifestazioni di massa o episodi che avrebbero fatto gridare al martirio. Di fatto in Algeria non è cambiato nulla rispetto alla prima decade del nuovo millennio, soprattutto non è cambiato il metodo di governo autoritario del suo ex leader. Bouteflika negli anni ha normalizzato i rapporti con le grandi potenze occidentali cercando di aumentare l’influenza internazionale del proprio paese, facendo accordi sul gas grazie alla multinazionale Sonatrach, la più importante del continente africano. L’Algeria si pone come paese strategico nei rapporti dell’Europa con il resto del Maghreb e del Sahel, dove la presenza dei fondamentalisti islamici è molto alta e radicata.
Nello scorso dicembre ci sono state le elezioni in cui ha avuto la meglio Abdelmadjid Tebboune, la tornata elettorale non è stata tuttavia semplice, con manifestazioni, chiusura di uffici, urne bruciate, incursioni nei seggi, presenza di militari e possibili brogli. Secondo il movimento Hirak, l’affluenza è stata bassissima, al di sotto del 10% ed ha comunque visto la vittoria di un uomo che da molti è chiamato “Mr. Cocaina”, in quanto sospettato di essere alla testa dei traffici di droga, ma soprattutto considerato come il rappresentante del proseguimento del regime corrotto di Bouteflika e dei militari. Hirak durante la campagna elettorale ha avuto come slogan la frase “li dobbiamo togliere tutti”, ed ha partecipato a manifestazioni settimanali di tutte le classi sociali avvenute nelle strade del paese. Con l’avvicinarsi delle elezioni le proteste e la loro repressione sono diventate quotidiane, hanno coinvolto anche enti locali dato che centinaia di sindaci avevano annunciato l’intenzione di non organizzare i seggi. Molti attivisti additano ai media di non avere dato abbastanza risalto a quanto accaduto in Algeria, forse perché gran parte delle potenze occidentali hanno in essere vantaggiosi contratti per estrazione di petrolio, gas e altre ricchezze naturali, per la vendita di armi, tecnologie di guerra e infrastrutture a cui il paese si è concesso molto negli ultimi 20 anni.
Iraq
Attualmente in Iraq proseguono le ondate di proteste che si protraggono da almeno 4 mesi, interessando la capitale Baghdad e i governatori meridionali. La popolazione è scesa in piazza per manifestare contro il governo con a capo il premier designato Mohammed Tawfiq Alawi e chiedere una personalità che sappia attuare riforme utili per risanare le crisi economiche, politiche e sociali in cui versa attualmente il paese.
Nel paese regna la povertà e sono i giovani a voler emigrare, provengono soprattutto dai governatorati meridionali che una volta erano considerati tra i già ricchi. A mobilitarsi negli ultimi mesi sono stati anche numerosi studenti di scuole e università, in proteste di piazza che hanno anche visto decine di vittime per causa della repressione da parte delle forze dell’ordine. I problemi principali del paese sono la povertà, l’accesso limitato all’acqua potabile, all’elettricità e all’assistenza sanitaria di base.
La prima ondata di proteste contro il governo guidato allora da Adel Abdul Mahdi è partita ad ottobre ed ha rotto una stabilità che durava da circa due anni. Sotto accusa vi è stata un élite politica troppo sottomessa agli alleati del paese come Iran e Stati Uniti, che utilizzerebbero l’ex paese di Saddam Hussein come una sorta di cuscinetto per contendersi maggiore influenza sulla regione.
Gli eventi degli ultimi 30 anni sono stati sfavorevoli alla crescita del paese, la guerra con l’Iran, l’invasione del Kuwait, la guerra del 2003 e la dittatura hanno portato al rallentamento dell’economia, un panorama desolante aggravato nel 2014 dall’avanzata dell’Isis a causa di cui c’è stata una interruzione delle forniture alimentari e il blocco dell’attività petrolifera nel nord del paese che è ripresa solo nel 2016.
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