Immigrazione
Filo spinato in nome della croce: una bestemmia. La nostra radice è anche in Siria
I disperati vanno bloccati alle frontiere in nome della nostra radice cristiana, ha detto qualcuno. In nome della croce, dunque, si innalzano muri di filo spinato. E pare una bestemmia.
Sì, pare una bestemmia ma contro noi stessi e contro la nostra storia giacché, probabilmente, è su quelle stesse rotte percorse oggi da chi scappa dalla guerra che qualche migliaio di anni fa giunse sino a noi l’avanguardia proveniente dalla attuale Siria che ci insegnò a raccontare noi stessi attraverso la rappresentazione di noi stessi e, insomma, ci insegnò l’arte e la cultura e quello che poi diventammo; e fu certamente anche quella la nostra radice.
Accadde prima che la Grecia classica conquistasse i nostri pensieri, accadde prima, molto prima, che Roma e il cristianesimo plasmassero in forma definitiva ciò che poi saremmo diventati, rivendicando per sé la radice della nostra cultura la quale, invece, nacque altrove e prima, e si propagò sino alle nostre coste per altre rotte le quali non passarono soltanto per Atene o Roma. E, allora, percorrendo a ritroso le rotte che oggi dalla Siria portano i vinti sino in Occidente, si torna inevitabilmente a chiedersi dove cominci davvero la Storia. Se, come è d’uso pensare, a Roma tra il Foro e San Pietro, oppure se altrove.
Ce lo si chiede soprattutto di fronte a uno dei possibili frutti di quelle migrazioni: i Giganti di Mont’e Prama, statue quasi del tutto ignorate per decenni sebbene siano un documento eclatante della nostra storia più antica. Esse rivelano il profilo arcaico di volti e di corpi possenti, e sono le più antiche, scolpite a tutto tondo, tra quelle che ci sono arrivate, forse coeve della Guerra di Troia, colossali e certamente parenti strettissime di quelle, anch’esse colossali, che nell’oriente mediterraneo più remoto custodivano, disposte in sfilata, l’accesso alle grandi città d’allora. A confronto con le statue greche e romane, questi giganti mostrano lineamenti sconcertanti, ingoiati da un tempo che rimonta a quasi 30 secoli fa. Per secoli sono rimasti celati alla vista dell’uomo poiché sepolti sotto terra, rimasti poi invisibili anche agli occhi dell’uomo moderno, pur essendo riemersi da un campo nei pressi di Cabras, in Sardegna, in quanto dimenticati da qualche parte, come non esistessero, forse per insipienza, forse perché incompresi nella loro eccezionalità, forse perché oscurati da altri giganti che in quegli stessi mesi – erano gli anni Settanta del Novecento – riemergevano dall’oblio: i Bronzi di Riace. Ed è facile capirne la ragione.
Nei Bronzi, e nel loro volto, tutti hanno saputo specchiarsi e trovare la propria radice: sì, quei due colossi siamo certamente noi. Difficile invece riuscire a fare lo stesso avendo di fronte quelle statue sarde così incomprensibili; e chissà l’inquietudine che certamente deve aver colto chi, all’epoca del ritrovamento, si sia trovato al loro cospetto, di fronte a quei volti dai tratti orientaleggianti, e abbia cercato di cogliere il senso dello sguardo dei loro occhi rotondi e immobili che guardano avanti a sé, scavalcando ogni cosa e ogni persona, e sembrano sapere d’essere eterni.
Trovare qualcosa che sia almeno paragonabile a questi giganti è operazione da Indiana Jones: si deve attraversare l’intero Mediterraneo, raggiungerne le estreme coste orientali, infilarsi nel golfo di Alessandretta, dove un tempo giungevano le propaggini dei regni neoittiti, a nord-ovest, e nordsiriani, a sud-est. Proprio qui, accanto alle porte delle città, si sarebbero potute vedere sfilate di enormi statue, come forse anche a Mont’e Prama, in Sardegna. Ebbene, oggi questi Giganti ignorati per secoli, e da poco resi visibili a Cagliari e a Cabras, iniziano a raccontarci la loro storia storia, ed è la storia di una comunità della quale non sappiamo ancora molto e che però – proprio mentre altrove Omero con le parole di Iliade e Odissea costruiva uno dei pilastri della cultura mediterranea – decideva di fare lo stesso in Sinis con la pietra, costruendo un intero popolo di statue colossali: una cosa senza confronti nell’intero bacino del Mediterraneo e nell’intera Europa ove tutto all’epoca − un migliaio di anni prima di Cristo − doveva ancora accadere.
Ecco, oggi quelle statue ci dicono che la nostra radice è più ramificata di quanto avremmo immaginato, e che la rotta Atene-Roma non è stata l’unica ad esser stata percorsa dalla multiforme civiltà che si è sviluppata sul bordo del Mediterraneo. E però oggi in nome di questa stessa nostra cultura – o di una idea stravolta di questa cultura – c’è chi innalza muri di filo spinato. Ma se noi siamo davvero diventati quel filo spinato, allora la sensazione è che anche oggi quei popoli che, qualche migliaio di anni fa, vennero a insegnarci a scolpire la pietra, ebbene: avrebbero ancora molto da insegnarci.
Alcuni brani di questo articolo sono tratti da «Paracarri – Cronache da un’Italia che nessuno racconta», Alessandro Calvi, Rubbettino Editore.
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