Immigrazione
Dire “Prima gli italiani” è anticostituzionale: intervista a Gherardo Colombo
In occasione dell’80° anniversario delle leggi razziali in Italia, il Memoriale della Shoah di Milano ospita la rassegna “Premesso che non sono razzista – come nasce il pregiudizio e come combatterlo”. Domenica 25 Novembre, alle 21, interverrà Gherardo Colombo. “È da quando mi son dimesso dalla magistratura, ormai 11 anni fa che mi occupo di educazione”.
Distrattamente viene da completare la frase con un: “alla legalità”
«Vede, legalità è un termine vuoto e rischioso: anche le leggi razziali erano leggi. Per questa ragione è necessario ragionare sul contenuto delle leggi e delle regole. il riferimento è al modo di stare insieme disegnato dalla costituzione, che è un modo improntato alla dignità universale delle persone e questa è un’impronta forte che va in senso opposto alla discriminazione, ad ogni mentalità discriminatoria».
Molto di recente si è riproposta nel dibattito pubblico la tensione tra legge e giustizia: pensiamo al caso del sindaco Mimmo Lucano che avrebbe trasgredito la legge per ragioni “superiori”.
«Esatto: la storia è piena di trasgressioni e violazioni di regole che hanno generato un progresso civile. Ma il problema, il tema è sempre quello del contenuto: se le leggi prevedono una progresso sociale, allora va bene rispettarle. Ma se le leggi sono discriminatorie, allora è giusto, doveroso trasgredire. Pensiamo a Rosa Parks, per fare un esempio storico di rilevanza mondiale. Naturalmente, perché la disobbedienza civile sia tale, è necessario che la trasgressione sia sempre dichiarata e accompagnata da una piena assunzione di responsabilità. Le formule possibile sono ovviamente tante: pensate a chi decideva di non pagare le tasse per la quota destinata alle spese militari. È evidentemente una cosa assai diversa dall’evasione”.
Un magistrato però deve applicare la legge che c’è, “per contratto”. Si è mai trovato davanti a dilemmi di coscienza radicali, sul punto?
“La nostra Costituzione è fondata sulla negazione radicale della discriminazione. Questo è un grande aiuto alla coscienza, se le leggi sono coerenti con la Costituzione difendono i diritti dei singoli e della comunità, ed è un vincolo per il legislatore che non può emanare leggi discriminatorie, perché la Corte le dichiararebbe incostituzionali. Il problema non sta tanto nel nostro sistema normativo ma, molto di più, nel fatto che una parte importante della popolazione non osserva le leggi contrarie alla discriminazione, né i principi costituzionali e questo porta con sé leggi discriminatorie”. Le categorie “discriminatorie” sono più invadenti e insieme sottili di quel che siamo abituati a pensare. «America first, di Trump o prima gli italiani sono chiaramente espressioni discriminatorie, perché danno una precedenza assoluta a identità nazionali a prescindere dal campo cui questa precedenza deve applicarsi. Sarebbe importante riuscire a distinguere il senso di appartenenza, che è una bella cosa, dalla mancanza di riconoscimento dell’altro. Io devo avere un’identità per riconoscere l’altro, ma questo fatto non può avere come conseguenza necessaria il fatto che io sia un nemico. Anzi, io sono convinto che molte delle aggressività identitarie cui assistiamo ogni giorno sono frutta di una debolezza della propria identificazione: se non mi sono identificato per bene ho paura di confondermi e temo che il confronto mi faccia perdere».
Vede fenomeni nuovi nella mentalità discriminatoria circolante oggi nella nostra società, o è tutto antico e già riconosciuto in altre epoche storiche?
«Certe discriminazioni sono molto radicate nella nostra cultura. Credo però che, per quanto riguarda il tema dell’accoglienza e dei migranti, il pregiudizio sia invece piuttosto recente. Della gente che muore in mare non importa niente a nessuno, e il disprezzo dedicato al lavoro delle ong lo testimonia. Sono fenomeni di violenza verbale diffusa che credo nuovi e recenti, anche per le proporzioni che hanno assunto».
Le categorie discriminatorie sono tutte “di destra”? Solo “di destra”?
«Vede, la sinistra ha una storia fortemente gerarchica. Era ammesso un ampio dibattito nel popolo, che però poi non contava nulla, perché a decidere erano sempre e solo le avanguardie. Questo ha sviluppato una radicata attitudine al comando, e anche da questo discende la continua tentazione di scindersi in entità sempre più piccole, pur di conservare la capacità di comandare. Ecco, questo per me rivela una mentalità discriminatoria profonda».
Lei da anni si occupa soprattutto di educazione e di formazione dei giovani. Molte statistiche ci dicono che il pensiero discriminatorio è particolarmente forte e radicato nelle nuove generazioni. Come mai?
«Io però li trovo sempre molto disponibili al confronto, alla dialettica. Credo che il radicarsi di certe idee dipenda molto dalle insufficienze del nostro sistema scolastico, che non dà gli strumenti di approfondimento. Noi del resto come nazione siamo più tendenti alla sudditanza che non alla cittadinanza, e quindi a seguire questo o quel nuovo idolo: e per superare questo errore di fondo servirebbe un grande impegno formativo ed educativo che purtroppo non c’è. Del resto, siamo imbevuti tutti di quella cultura di cui siamo tutti imbevuti di quell’attitudine discriminatoria. del resto anche una gerarchizzazione della società era fortemente prevista nella storia della sinistra, in cui chi decideva alla fine era sempre il vertice… come possono i giovani essere diversi dagli adulti che li formano, che siano di destra di centro o di sinistra».
Un impegno tanto più necessario quanto più sono alti e ambiziosi gli obiettivi che si pone la nostra costituzione, sul tema.
«Esattamente. La Costituzione afferma in ogni sua parte un concetto semplice e potente: io non sono più di te. La parola cittadini, nell’articolo 3, significa “umani”, ha un’accezione universale ben più ampia di quella della semplice cittadinanza nazionale, e questo ce lo dicono tutte le evidenze semantiche e i lavori preparatori alla stesura della carta».
Ironizza anche, a più riprese, sugli anni che passano in frettissima. Tanto in fretta cambiano le cose che Berlusconi, da emblema del populismo italiano e avamposto di quello internazionale, viene oggi considerato un simbolo della resistenza ad esso, quasi un argine?
«(ride). Un argine? Insomma, è curioso: se oggi è un argine ieri è stato un potente fattore di accelerazione del populismo stesso. Quell’epoca ha facilitato il radicarsi di parole d’ordine che oggi troviamo circolanti ed esasperate».
A proposito, torna l’idea di introdurre modifiche costituzionali in direzione presidenzialista.
«E credo che oggi questa riforma potrebbe anche passare. Pervertendo un architrave tutto fondato invece sul bilanciamento dei poteri, per evitare appunto lo strapotere di pochi. Per evitare, cioè, la discriminazione di chi rappresenta la maggioranza ai danni delle minoranze»
E il populismo giudiziario, iniziato con Mani Pulite, non ha avuto una funzione analoga?
«Ho sempre pensato che la via giudiziaria non fosse quella giusta per risolvere certi problemi. Lo aveva detto nel 1992 a un’intervista dall’Espresso, in cui dicevo che il carcere non era una soluzione, e che si doveva trovare il modo di evitare la carcerazione ai corrotti e ai corruttori che ammettevano la loro colpa restituendo il maltolto. Non era la soluzione, e infatti finita Mani Pulite è continuata la corruzione».
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