America
Corte d’appello federale boccia Obama sull’immigrazione
New Orleans. Una Corte d’appello federale ha accolto ieri il ricorso di ventisei stati, volto a bloccare i provvedimenti in tema di immigrazione, portati avanti negli ultimi mesi dall’amministrazione Obama. Un insieme di misure, fortemente volute dal presidente, e giustificate, evidenziando a più riprese l’assenza in America di una legge organica che affronti il problema immigratorio.
Misure articolate in una serie di passaggi ben precisi: nella fattispecie, possibilità per i figli di immigrati clandestini di acquisire un particolare status giuridico che permetta loro di lavorare legalmente negli Stati Uniti e tutela dei clandestini che siano genitori di immigrati con cittadinanza statunitense o comunque titolari della green card. Provvedimenti corposi, che salvaguarderebbero circa cinque milioni di irregolari, attraverso permessi di lavoro e blocco delle deportazioni.
E ovviamente è stato subito scontro. Da una parte, i democratici accusano la corte d’appello di faziosità (essendo costituita in gran parte da giudici di nomina repubblicana) e di sostanziale scorrettezza, avendo tirato per lunghe l’emissione di una sentenza che sarebbe dovuta uscire settimane fa: un ritardo sospetto che – secondo i malpensanti – risulterebbe il frutto di una strategia per impedire alla Corte Suprema di pronunciarsi in tempo sulla questione. E proprio alla Corte Suprema Obama adesso guarda con fiducia (e apprensione), sperando in un ribaltamento del verdetto.
Sul fronte opposto, i repubblicani esultano. Secondo loro, il pacchetto di misure avanzato dalla Casa Bianca rappresenterebbe un abuso dei poteri presidenziali e una conseguente violazione dei princìpi costituzionali. L’accusa è sostanzialmente quella di aver indebitamente scavalcato il Congresso. Ed è per questo che repubblicani come Bob Goodlatte oggi sostengono che la sentenza sia “una vittoria della Costituzione e del popolo americano”.
Questa bocciatura rinfocolerà una delle questioni più spinose del dibattito politico in seno alla corsa per le presidenziali del 2016: un’immigrazione che è via via divenuta sempre più terreno di scontro tra i vari candidati e – soprattutto – pomo della discordia all’interno di un Partito Repubblicano, essenzialmente dilaniato tra centristi e radicali.
E proprio per questo, prevedibilmente, tale evento costringerà i candidati repubblicani a schierarsi sempre più nettamente, alzando i toni dello scontro e – almeno nel breve termine – a favorire i personaggi più anti-immigrazione (come Donald Trump). Di contro, i fautori di linee più morbide sulla questione (Bush, Rubio e Kasich) dovranno una volta di più mantenersi in equilibrio tra l’esigenza di portare avanti un progetto programmatico non meramente barricadiero e la necessità di non alienarsi del tutto il voto ultraconservatore. E il rischio per il GOP è difatti un’ulteriore radicalizzazione che finisca col rinsaldare le file dell’Asinello. Un Asinello che può oggi rafforzare la sua capacità di intercettare il voto di quote elettorali importanti (come quella degli ispanici): sottraendole sempre più alla possibilità di conquista repubblicana.
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