Agroalimentare
Chiese nere, lavoro nero
Borgo Mezzanone, Nardò, Rosarno, Saluzzo, Castel Volturno, San Ferdinando, Cassibile, Mazara del Vallo, la Felandina….
Sarebbe interessante proporre la sequenza di questi nomi e porre la domanda: cosa ti viene in mente?
Per lo più credo pochi in Italia potrebbero associare a questa sequenza le immagini del lavoro stagionale in agricoltura in Italia.
Un comparto produttivo di necessità primaria nel belpaese ma che l’Istat in maniera impietosa fotografa così: «l’agricoltura è in ogni caso il settore maggiormente associabile al lavoro povero. Fra le prima cinque professioni con la maggiore incidenza di lavoratori poveri, quattro sono professioni agricole».
C’è qualcosa di ancora più specifico però che riguarda la sequenza dei luoghi declinata all’inizio: sono tutti posti che vedono per lo più lavoratori immigrati all’opera, asilati in vere proprie favelas, accampamenti rurali privi di acqua, energia elettrica e servizi igienici.
Parte da questa fotografia l’analisi condotta con quattordici studi di approfondimento, il libro “Chiese nere, lavoro nero – migranti evangelici e dinamiche trasnazionali a Castel Volturno”, edito da Le penser edizioni, curato da Paolo Naso, con la presentazione di Daniele Garrone e la postfazione di Giovanni Cerchia.
Il fuoco dell’immagine si stringe su Castel Volturno, metafora italiana del progressivo degrado di un territorio carico di potenzialità, luogo emblematico dello sfruttamento della manodopera immigrata, quella che garantisce cibo sulle nostre tavole e servizi alle nostre imprese, modello economico e sociale replicato in altre tappe della catena del lavoro stagionale al nord e al sud d’Italia.
Il documentato racconto de libro ambisce a rimettere al centro del dibattito culturale e politico la necessità di costruire una via italiana all’integrazione dell’indispensabile manodopera straniera, perché a tutt’oggi «una via italiana all’integrazione semplicemente non esiste, non è mai stata imbastita né proiettata» (J. R. Bilongo, pag. 11).
L’alimentazione di un dibattito e di una ricerca è più che mai nelle mani della società civile.
La cifra politica del governo dell’immigrazione in Italia «si riassume nella crimmigration ossia la declinazione penalistica degli assunti politici applicati all’immigrazione e alla necessità del suo controllo: espulsioni, respingimenti, allontanamenti, detenzione nei centri di rimpatrio, compressione dei margini di autonomia delle Ong in materia di salvataggio in mare, chiusura dei porti. Sono questi alcuni connotati dell’approccio sicuritario anti-migranti che attraversa l’Italia, ma non solo, da un quarto di secolo» (J.R. Bilongo pag. 9).
Il libro però ha ancora una suo specifico oggetto di indagine. Cerca di entrare nella «peculiarità di Castel Volturno per presentare le numerose chiese nere che costellano l’area limitrofa: luoghi accessibili attraverso i quali riconnettersi con la cultura e la spiritualità tradizionale da cui si proviene, gusci etnici che proteggono ma non favoriscono l’integrazione nella società circostante. Chiese che passano inosservate, un fenomeno quasi “folklorico” ricco di potenziali attori civici per promuovere legalità, welfare, inclusione sociale e civica. Se solo – si legge in quarta -, vi fosse la coscienza e la volontà politica necessarie ad andare in questa direzione».
In termini strettamente di impatto religioso sono chiese neo pentecostali di origine africana che si inseriscono in una dinamica globale e internazionale (insieme a quelle asiatiche e sudamericane) di espansione grazie all’immigrazione. Studiosi come Enzo Pace e Andrea Ravecca sostengono che «il cristianesimo, così come si è storicamente radicato nelle società europee sembra destinato ad uno choc liturgico e teologico» per il carattere originale della spiritualità che queste chiese propongono.
Mettere a fuoco un caso paradigmatico come quello della piccola Castel Volturno permette più che mai di immaginare traiettorie di cambiamento sempre più significative e globali.
E invoca più che mai un cambio di direzione improrogabile anzitutto nella consapevolezza di quanto c’è in gioco.
«L’analisi che abbiamo condotto e ripetuto dopo oltre dieci anni [la prima ricerca sul tema con la gran parte dei ricercatori di questo volume è del 2012] ci consegna un quadro sconfortante, l’immagine di un processo migratorio congelato in una forma di separazione etnica tra “bianchi e neri”, di identitarismo religioso di comunità religiose che non fanno rete e di persistente opacità economica di un mercato del lavoro ancora largamente segnato dal caporalato. La necessità di garantire una governance dei processi migratori, di tutelare diritti dei migranti e di promuovere politiche della interculturalità – anche nelle dinamiche religiose – chiedono una svolta» (P. Naso pag. 205).
Chissà se qualcuno avrà il coraggio di chiedere conto di tutto questo, ad esempio, in questa stagione di campagna elettorale per il parlamento europeo a qualche candidato. Proprio in questi giorni la coraggiosa inchiesta di Giulia Innocenzi con il docufilm FOOD FOR PROFIT, documenta che in tutta Europa esiste il problema dello sfruttamento dei lavoratori nel settore agricolo.
Vale ribadire che nel 2004, tra i Principi comuni di base dell’Unione europea si riconosce che «la pratica di culture e religioni diverse è garantita dalla Carta dei diritti fondamentali e dev’essere salvaguardata…le culture e le religioni che gli immigrati portano con sé possono facilitare di più comprensione tra le persone, facilitare la transizione degli immigrati nella nuova società e possono arricchire la nuova società».
Auspici e dichiarazioni che attendono di divenire realtà.
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