Immigrazione
Caro Salvini, gli imprenditori migliori sono già stranieri: parola di banca
Pensavo di essere stato abbastanza provocatorio quando nel titolo di un mio recente intervento mi chiedevo se i nostri futuri imprenditori del 2050 non possano essere gli immigrati di oggi. Oggi la mia provocazione è confermata e scavalcata da una ricerca dell’ufficio studi della banca di Piazza della Scala, quella di Mattioli e Cuccia, che documenta che già oggi è così. Già oggi l’impresa immigrata contribuisce importanti punti di PIL alla nostra economia. Ci sono i primi dati su un campione di imprese, e una interessante rassegna di altri contributi scientifici sul tema. Non c’è la congettura che avanzavo nel mio precedente intervento sul fatto che gli stranieri sappiano prendere i rischi che noi italiani non sappiamo più prendere, ma ci sono dati che la potrebbero supportare. E al di là delle congetture, fa bene al dibattito politico che impazza sull’immigrazione, sui rifugiati per guerra o per fame, ripercorrere questi dati su un’immigrazione di cui nessuno ha parlato, quella che diventa azienda.
Il lavoro è della serie Collana Ricerche, della Direzione Studi e Ricerche di Intesa San Paolo, a firma di Gregorio De Felice, Giovanni Foresti e Serena Fumagalli. La ricerca è zeppa di numeri, e presenta per la prima volta un confronto tra aziende di immigrati e aziende italiane dello stesso settore e della stessa dimensione. E’ il caso però di riportare i dati che più colpiscono per definire il contributo degli immigrati al PIL italiano, su due aspetti: il loro peso nella struttura produttiva italiana, e la loro redditività. Poi cercheremo di estrarre dai dati indizi sul loro appetito per il rischio.
In primo luogo, è interessante sottolineare il segno del contributo degli immigrati al mondo dell’impresa in Italia. Sulla base di dati Infocamere risulta infatti che il saldo tra iscrizioni e cancellazioni di imprese è negativo, per le imprese italiane, in tutto il periodo 2011-2014, mentre è positivo per le imprese straniere. In poche parole, se non ci fossero imprenditori stranieri, avremmo oggi molte meno imprese di quelle che avevamo nel 2011, che è l’anno in cui la crisi è arrivata in Italia. Per quanto riguarda l’incidenza degli imprenditori immigrati, questa è particolarmente rilevante nel settore delle costruzioni, in alcune attività di servizi e nel sistema moda. In questi settori rappresenta tra il 15% e il 20% delle imprese.
Per quanto riguarda il confronto tra aziende di immigrati e aziende di italiani, dello stesso settore e della stessa classe dimensionale, l’analisi rileva una maggiore redditività del capitale, 4,9% contro 4,6% nel 2013, ma la differenza era addirittura più marcata negli anni precedenti. La differenza diventa ancora più rilevante se analizzata nei settori in cui si manifesta. La differenza di redditività è enorme nel sistema delle costruzioni (5,7% contro 4,1%), e molto rilevante nel settore dei servizi alle imprese (6,1% contro 5%) e nel turismo (6,1% contro 5,3%). Non c’è invece differenza nel manifatturiero e nella distribuzione.
La differenza di redditività risulta ancora più marcata se si tiene conto che le aziende di immigrati fronteggiano un costo del debito più alto delle corrispondenti italiane, e la differenza è aumentata attraverso la crisi, arrivando a 5,9% contro 5,3% nel 2013. Inoltre, le imprese di immigrati impiegano meno capitale delle italiane, 13,3% contro 17,2% in percentuale dell’attivo. Nel corso della crisi, infine, il fatturato delle imprese di immigrati si è contratto meno di quelle di italiani, perché le imprese di immigrati sono state in grado di contrarre i margini unitari più delle italiane.
E’ abbastanza facile unire i puntini di questa immagine per ottenere una conferma del fatto che gli immigrati hanno dimostrato una maggiore capacità di affrontare il rischio. Affrontano il mare quando gli italiani si ritirano, sfidano onde più alte nel rapporto con il sistema bancario e con imbarcazioni di capitale meno sicuro di quelle degli italiani. E a fronte di questo maggiore rischio ricevono un maggiore rendimento, come si conviene alla legge fondamentale dell’economia e della finanza. La capacità di contrarre i margini testimonia anche il fatto che hanno sempre avuto un loro Jobs Act, in cui il rischio aziendale viene condiviso con il lavoro. Inoltre, la ricerca rileva anche una minore presenza di certificazione della qualità dei processi aziendali, in particolare per le aziende più piccole. Questo non può non riportare alla memoria, come evento estremo, l’incendio di una fabbrica tessile di cinesi nel distretto industriale di Prato. Il rischio viene spinto quindi ben oltre quello aziendale, e può diventare in alcuni casi un problema di sicurezza sul lavoro.
Nei suoi aspetti chiari e scuri, emerge quindi un fatto evidente. Gli immigrati che hanno aperto aziende in Italia sono tanti ed hanno aumentato la produzione di reddito interno prendendo più rischi. Peccato che da questo studio non si sia tratta una possibile inferenza sulla crescita a livello nazionale. Lasciamo le nostre domande agli economisti industriali. Quanti punti di PIL in meno avremmo avuto senza il contributo degli immigrati? E quanto sarebbero oggi più restrittivi i vincoli europei, denominati in termini di PIL? E senza gli immigrati, vedremmo oggi questa debole ripresa? Di quanto non sappiamo, ma questa ricerca ci dice che senza immigrati staremmo peggio.
Il caso ha voluto che questa ricerca, proveniente da uno degli uffici studi da sempre più ascoltati, e da una banca che in tutto il secolo scorso ha accompagnato l’imprenditoria italiana, arrivasse nella mia posta elettronica proprio nello stesso giorno in cui Salvini cinguettava a rutti a proposito della mancanza di “cultura del lavoro” degli immigrati. Niente male, per uno che è passato dalla raspa alla ruspa senza mai passare per il lavoro. Salvini si rassegni. Gli immigrati servono alla nostra economia per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare: in primis, il lavoro dell’imprenditore.
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