Geopolitica
La Fortezza Europa vuole mettere “another brick in the wall”
Il titolo non inganni, non è di musica che parliamo in questo articolo. Semmai di rumore.
Non di un rumore come quello improvviso, che si sente, ma di un altro, peggiore perché più lungo e duraturo, un rumore che si ascolta. È quello di una politica becera, retrograda e tutt’altro che umana, rimbalzato e amplificato dai media di parte, e anche da quelli contrari, i quali hanno bisogno di vender copie o registrare accessi alla stessa maniera, indipendentemente dagli schieramenti.
La celeberrima canzone dei Pink Floyd, capolavoro in più parti con la seconda che è divenuta in assoluto quella di maggior successo, significa in italiano un altro mattone nel muro. È una canzone di protesta, ancora attuale sotto molti aspetti, persino tremendamente se consideriamo i nuovi muri d’Europa, quelli che numerosi Paesi della UE (ben 12) stanno richiedendo a gran voce a Bruxelles. Facendo tanto rumore, appunto.
Una storia che (non) insegna
Come ricordiamo, uno dei principi più importanti sui quali è stata costruita non soltanto l’istituzione Unione Europea, bensì l’intero immaginario su cui poggia l’esperimento di democrazia collettiva che il Vecchio Continente ha deciso di portare avanti fondando la UE e costruendone l’identità, è il crollo del Muro di Berlino. Similmente, il trattato di Schengen, ovvero quell’accordo che ha abolito, di fatto, le frontiere interno all’Europa unita sotto l’egida di Bruxelles, è stato sempre trattato come un fatto più che positivo. Non solo, spesso si è tirato in ballo come uno dei cardini su cui si regge l’intero carrozzone della UE, utilizzandolo come un’arma affilatissima anche durante i complicati accordi successivi alla Brexit.
In questo preciso momento, però, questi bei principi appaiono tristemente solo ed esclusivamente come parole vuote, poiché la situazione è molto diversa. Paesi membri come Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia hanno inviato una lettera alla commissaria per gli Affari Interni della UE, Ylva Johansson, annunciando il loro desiderio di innalzare barriere o recinzioni che proteggano i confini nazionali dalle ondate migratorie. Com’è ovvio a chiunque, sono intenzioni che cozzano decisamente con i due principi di cui abbiamo scritto poc’anzi, i quali miravano all’esatto contrario, ovvero all’abbattimento di muri e barriere.
Nella lettera si umiliano tanto le intenzioni messe nero su bianco nel 1985 sulle acque della Mosella – presso il comune di Schengen appunto, da cui il nome del trattato – quanto le speranze e i sogni che furono edificati sulle macerie del Muro di Berlino, che riunendo la Germania unificò simbolicamente anche tutta l’Europa, liberandola dalle morse di influenza occidentale e orientale, al tempo americana e sovietica, rimettendo al Bundestag i poteri democratici. 32 anni dopo, pare che quella lezione sia stata dimenticata.
Il testo della lettera
La lettera inviata a Johansson porta la firma dei Ministri dell’Interno di tutti i 12 Paesi che l’hanno redatta. La missiva è un’associazione di intenti di questo gruppo di membri nella quale si chiede a Bruxelles di finanziare con fondi europei la costruzione di barriere capaci di tener fuori dai confini nazionali gli indesiderati migranti. Secondo il progetto di questi Paesi, dovrebbe essere la Commissione Europea a farsi carico delle spese di questi muri che sarebbero innalzati dai governi nazionali. Siamo più o meno al livello politico di Donald Trump, quando affermò di voler costruire un muro al confine meridionale degli Stati Uniti, in maniera tale da respingere i migranti, e di volerlo far pagare ai messicani.
Un passo piuttosto preoccupante della lettera, tanto da apparire quasi delirante, recita così:
“Le barriere fisiche sono una misura efficace di protezione dei confini di cui beneficia l’intera Unione. Questo strumento legittimo dovrebbe essere finanziato adeguatamente dal bilancio europeo, e diventare una priorità.”
Al di là del fatto che i verbi beneficia e finanziato e gli aggettivi fisiche e legittimo sembrano enormemente fuori luogo, dal momento che si parla di rendere ancora più inespugnabile una fortezza Europa che già oggi ha fin troppi strumenti, più o meno rispettosi di leggi e diritti umani, di respingere migranti indesiderati, quel che pare incredibile è come ancora si possa ragionare di confinamenti e separazioni in un’epoca nel quale viviamo connessi e collegati con tutto il mondo, in tempo pressoché reale. Quella stessa UE che si proclama casa di libertà e democrazia preferisce costruire muri e recinzioni in filo spinato piuttosto che trovare soluzioni politiche condivise e inclusive alla questione dei migranti provenienti da situazioni di povertà spesso estrema.
La maggior parte dei Paesi che hanno firmato la lettera sono governati da forze di centrodestra. Fanno eccezione alcune coalizioni di governo non monocolore e la Danimarca, il cui esecutivo è di centrosinistra. Quel che fa specie è che la coalizione dei favorevoli a muri e barriere si stia allargando velocemente. Significativo è anche il fatto che nessuno di quei Paesi presso i confini dei quali sia stata recentemente innalzata una qualunque barriera fisica – ne contiamo già svariati in Europa orientale – l’abbia poi smantellata o si sia comunque attrezzato in qualunque maniera per farlo in tempi brevi.
Quando Johansson ha parlato con i media, in conferenza stampa, della lettera ha negato con convinzione che finanziamenti UE saranno usati per costruire confini o barriere. A parte questo, però, la commissaria ha fatto sapere di non avere nulla in contrario alla loro realizzazione da parte dei Paesi membri.
Muri contro i migranti: se tutto il mondo è paese
L’agenzia di stampa AGI, allargando il punto di vista, ben ci presenta la situazione dei muri nel mondo. A partire, come scrivevamo, dal lato orientale del continente europeo, davvero innumerevoli sono le barriere che si stanno innalzando nel mondo per tenere fuori, escludere e togliere speranza, come novelle porte del dantesco inferno, in questo caso però non vi è nessuno che entra dopo aver varcato selve oscure, bensì soltanto persone che restano fuori.
In tutto il mondo si contano centinaia di chilometri di muri o barriere elettrificate ai confini. Nel 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino di cui abbiamo già parlato, le separazioni fisiche erano sei, su tutta la faccia del pianeta. Oggi sono diventate 63. I dati ce li ha dati un anno fa, nel novembre 2020, il Transnational Institute, importante think tank olandese autore di uno studio sul tema in collaborazione con il gruppo tedesco Stop Wapenhandel e i catalani del Centre Delàs d’Estudis per la Pau, con sede a Barcellona. Per paradossale che possa sembrare, il ventennio che ha seguito la conclusione della Guerra Fredda e l’abbattimento della Cortina di Ferro è stato particolarmente prolifico nell’edificazione di barriere. Siamo tornati ai muri, sebbene ora non vi siano più orientali da tenere dentro, impedendo loro la fuga, bensì altri orientali da tenere fuori, lontani dagli occhi e dalle nostre vite.
Se tutti conosciamo, dalle notizie che sentiamo ogni giorno e soprattutto sentivamo quando Donald Trump era al potere, il muro che vuole tenere i clandestini sudamericani in Messico, impedendo loro di varcare il border con gli States, ora è l’area Schengen quella che ha innalzato il maggior numero di barriere. I chilometri di muri nel Vecchio Continente sono oltre mille, con separazioni in filo spinato che partono da Ceuta e Melilla – le enclavi spagnole in Marocco – e giungono fino all’Ungheria di Viktor Orbàn. L’idea del premier ungherese, il quale voleva – a suo dire – preservare le radici cristiane con 175 chilometri di muro sopra il quale sono stati posti quattro metri di filo spinato, ha riscosso grande successo: Slovenia, Austria e Macedonia hanno infatti subito seguito l’esempio, ideando e realizzando barriere molto simili.
Lo stesso farà presto la Turchia. Il Paese ha infatti quasi terminato la costruzione di una separazione al confine con l’Iran: un muro come quello lungo il confine siriano e iracheno. Costruito per prevenire l’arrivo di migranti clandestini, esso si presenta in più moduli, lungo circa 295 chilometri e dotato di sensori a infrarossi. Lituania e Lettonia hanno annunciato che edificheranno barriere ai loro confini con la Bielorussia.
Il concetto di muro
Normalmente, ogni volta che si innalza un muro o una barriera, si trova comunque il modo di varcarlo. Essi infatti falliscono sempre il loro scopo, ovvero quello di fermare le persone; al massimo riescono a limitarne i movimenti per un certo periodo, più o meno lungo a seconda dell’investimento e della sorveglianza. Quel che fanno è provocare grandi sofferenze a chi cerchi di varcarli, nonché spingere i trafficanti ad aprire nuove rotte.
La tensione ai confini orientali è palpabile e la Bielorussia corre il rischio di divenire presto il nuovo tappo pronto ad esplodere; ciò si deve al fatto che il presidente Aleksandr Lukašenko stia applicando la nota tecnica di Muhammar Gheddafi per provocare la UE, rea di aver minacciato sanzioni al governo bielorusso in seguito alle dure repressioni governative nei confronti degli oppositori, nel corso dell’anno 2020. Minsk ha concesso visti ai migranti per arrivare in aereo fino alla capitale bielorussa, lì ha caricato tutti su autobus e li ha condotti ai confini con Polonia e Lituania, portando pressione sulla UE e generando apprensione sui governi dei due Paesi. Questo operato ha inevitabilmente aperto una nuova rotta per i migranti, che hanno cominciato a sfruttarla. La risposta è stata quella del muro. Questa nuova epoca di barriere, decise in maniera arbitraria dai governi nazionali, indica chiaramente l’estrema fragilità dell’Europa in questo momento, come sottolinea Annalisa Camilli su L’Internazionale.
Bruxelles dovrebbe combattere questo modus operandi con un fronte comune, una chiara politica comunitaria, e invece fa proprio il contrario: cerca dei compromessi, non condanna l’operato dei governi nazionali ma, anzi, finanzia e rafforza l’esternalizzazione delle proprie frontiere, aiutando economicamente chi blocca i flussi con detenzione, presidi militari e, naturalmente, muri e barriere. Nel 2016 si è pagato Recep Tayyip Erdoğan perché fermasse i siriani; l’anno seguente il governo di Tripoli – quello riconosciuto dalla UE – perché respingesse i barconi in partenza dai suoi porti; poi è stato il turno di Tunisia, Egitto e Marocco perché ostacolassero la partenza e il passaggio di profughi dai loro territori. Questa non è certo una politica efficace sul medio e lungo termine ed è controproducente anche sul breve, in quanto non può che rafforzare, grazie ai bonifici, i governi – principalmente autoritari – che controllano quelle zone.
Rendere la vita umana una potenziale arma di ricatto è terribile; non si può sperare che basti il desiderio di una Europa unita ad assopire tutte le divergenze interetniche esistenti, ogni paura atavica di una invasione di stranieri e qualunque conflitto latente o invidia tra Paesi confinanti. Vediamo prevalere un atteggiamento cupo e, probabilmente, inefficace da parte della UE. Introspezione, chiusura, nessuna idea su come abbattere le divisioni interne ai 27 membri rilanciando il processo di integrazione tra tutti i Paesi che stanno dietro alle bandiere che sventolano a Bruxelles, questa è l’Europa di oggi; i muri e i concetti che stanno alle loro spalle ne sono un chiaro esempio, è come se gli europei stessero tornando nel passato.
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