Immigrazione

Abidjan, a casa di Ani Laurent: “Aiutateci a riavere il corpo di nostro figlio”

29 Gennaio 2020

ABIDJAN – Il 25 gennaio del 2020 ho incontrato la famiglia di Prince Ani Guibahi Laurent Barthelemy, il ragazzino di 14 anni che lo scorso 7 gennaio è stato trovato morto nel carrello di un Boeing 777 che era partito la sera prima da Abidjan, capitale della Costa d’Avorio, verso Parigi. Ho fatto la medesima tratta per arrivare da loro, ma in direzione inversa. Per tornare in Italia, passando da Parigi, è possibile che abbia preso quello stesso aereo. Ho incontrato una famiglia che, dopo la disperazione della perdita, vorrebbe almeno l’atavica e mai sufficiente consolazione del corpo del proprio piccolo. Aspettano notizie da settimane, nessuno gliene porta.

All’incontro erano presenti Ani Oulakolé Marius, la sua compagna e madre adottiva di Ani Laurent e la sorella della medesima età, figlia della donna. Mi hanno ospitata nel cortile della casa in cui vivono insieme agli altri bambini. Per raggiungere l’abitazione, che si trova all’interno di un villaggio del sobborgo di Yopougon, siamo stati scortati dal signor Marius, perché la casa di Ani Laurent non è raggiungibile in macchina e, anche a piedi, si tratta di farsi strada in un saliscendi nella terra tra detriti di muri, tubature scoperte, cavi elettrici tirati a un metro dal suolo.

Chiedo subito se hanno internet. È la prima di una serie di domande in cui mi vergognerò di me stessa.

Uno dei fratelli di Ani sistema le sedie in cerchio. Ci accomodiamo: sono con il nostro autista, il mio contatto locale con la famiglia, e chi mi fa da traduttore, il ragazzo ivoriano che mi ospita ad Abidjan, che vive da cinque anni in Italia, e che traduce le mie domande scegliendo le parole più delicate e scusandosi con la famiglia quando delicate non potranno essere. Le foto e le riprese le ha fatte lui. Nessuno pensava di strutturarsi più decentemente per scrivere questo pezzo al rientro. Nessuno immaginava che, nell’ingiustizia della storia, avremmo trovato l’ingiustizia della narrazione della storia. In cerchio siedono anche Marius e suo fratello, che inizialmente parla per lui. “Io che ti parlo sono Uraga. Sono contento del vostro arrivo. Perché magari ci puoi aiutare a vedere il nostro bambino. Ensemble nous serons fort”. A terra, accovacciata, la moglie di Marius, che ha cresciuto Ani Laurent da quando aveva due anni: la mamma biologica, che vive non troppo lontana, ogni tanto riceve il figlio che quando esce da scuola passa a salutarla, lo ha lasciato piccolo al padre (succede spesso qui) perché provvedesse lui alla sua educazione. Il padre di Ani è un insegnante di fisica e matematica. Vorrei farvela vedere questa donna, che per un’ora non si è mossa, non ha spostato lo sguardo, non ha aperto bocca. I giornali hanno riportato un’immagine insieme alla notizia del riconoscimento in Ani Laurent della vittima. La prima cosa ingiusta di quella notizia è la foto che è circolata facendoci credere che fossero le mani della donna a tenere quel foglio che denunciava la scomparsa del figlio. Non lo erano: la signora, la mamma adottiva, è in stato catatonico da quel giorno, mi dice il marito; chiedo se hanno visto un medico, se possiamo accompagnarla in ospedale. Sorridono, e vuol dire che ovviamente no.

Mi offrono dell’acqua, mi danno della carta per asciugarmi il sudore, autorizzano che li registri e che faccia delle foto. Quell’uomo che non ha acqua potabile, non ha l’euro che gli serve per raggiungere la scuola dove deve recarsi dopo il nostro incontro, ma per ricevermi ha scelto il vestito più bello, ha i jeans puliti e la camicia. È calmissimo, piangerà solo una volta durante il nostro incontro e allora tengo duro anche io, finché non gli mostro un’immagine che ho scaricato da internet la sera prima, una vignetta che Makkox ha fatto per il Foglio. Voglio dirgli che l’opinione pubblica in Italia è stata molto toccata da questa vicenda, ne abbiamo parlato e scritto tanto, ma lui non capisce: prima del nostro incontro non era nemmeno sicuro che mi sarei davvero presentata. Una giornalista italiana per una storia di cui qui si sono dimenticati tutti il giorno dopo, perché in fondo è solo un altro morto. Non crede che possa essere interessata sul serio.

La cronaca, come ci hanno detto: il 6 gennaio il loro ragazzo non torna da scuola. “Normalmente alle 4 doveva rientrare”. Aspettano fino alle 17, 17,30. Niente. Il padre si recherà avanti e indietro due volte a cercarlo, una a notte fonda, chiedendo notizie a tutti. La scuola non è lontana ma nemmeno vicina, e non lo raccontano come un dettaglio perché anche un banale spostamento di pochi km è un costo per il quale la famiglia si indebiterà: sono 4 km, circa 200 franchi ivoriani di taxi andata e ritorno. Vanno anche alla polizia quel giorno e ci torneranno ancora per denunciare la scomparsa e sapere se hanno avuto notizie di incidenti. Niente. In Italia, nel frattempo, noi abbiamo già letto la notizia del bambino di dieci anni trovato morto nel carrello di quell’aereo dell’Air France. Ma loro no, naturalmente. E poi non torna l’età: Prince Ani Guibahi Laurent Barthelemy ha quasi quindici anni e in Europa si parla di un bambino di massimo dieci anni. E invece torna perfettamente: ogni volta che incontrerò un bambino in questo viaggio troverò la mia terza domanda stupida (“sicuri che abbiano nove anni questi bambini che ne dimostrano sei scarsi?”).
Fino al 9 sera nessuna notizia. Il 10 gennaio il Comandante dell’aeroporto contatta il numero di telefono nel foglio di scomparsa diffuso: “siete voi?” “sì”. Fa andare il padre da lui: gli mostra uno zainetto che contiene un cambio di vestiti e la divisa della scuola, pantaloncini e maglietta gialla, profili verdi, tessuto sintetico. “Riconoscete questo?”. Sono quelle di Ani Laurent. “Sì questo è lo zaino di mio figlio”. Ok, bisogna aprirlo. “D’accordo, signore, suo figlio era dentro la ruota…”.
Arriva così la notizia. E, insieme a quello zaino, la quarta, quinta, sesta domanda stupida della giornalista italiana: aveva un cellulare? Dei soldi? Un giubbotto o qualcosa di pesante con cui coprirsi? No, no, no. Perciò il papà non ha idea di come suo figlio abbia fatto a raggiungere l’aeroporto che dista 30 km; lui che non è mai uscito dal villaggio e che non avrebbe nemmeno dovuto sapere dov’era l’aeroporto; lui che non aveva con sé da mangiare nulla; lui che sapeva che tra tutti quegli aerei proprio quello sul quale si è nascosto era quello esatto che avrebbe volato a Parigi, ma non sapeva che nessuno può sopravvivere alle temperature alle quali sarebbe stato esposto in volo. Com’è possibile? Le domande dei famigliari sono tantissime, come i dubbi, come i sospetti, innumerevoli come sarebbero quelle di chiunque a cui chiedessero di sostenere l’irricevibile: che il nostro bambino abbia fatto davvero qualcosa che noi non avremmo mai pensato che avrebbe potuto fare.

 

Ed è qui la seconda, più grave, ingiustizia: ci dicono che la famiglia ha effettuato il riconoscimento. Noi immaginiamo il corpo, invece è uno zaino. Perché la famiglia quel corpo non lo ha mai visto e non sa nemmeno dove sia, né sa se lo avrà mai indietro. Noi immaginiamo il corpo e ci mettiamo via così la faccenda di Prince Ani Guibahi Laurent Barthelemy; loro vedono uno zaino e crescono le fantasia possibili intorno a quella vicenda. Dov’è ora il corpo, chiedo. Ovviamente non lo sanno, e non sanno che cos’è un’autopsia.  Devo spiegare io che, a quanto ne so, le cause accertate della morte sono quelle per assideramento, mentre loro fino a quel momento hanno considerato anche l’ipotesi che il loro ragazzo fosse già morto quando è stato messo sull’aereo. Nessuno spiega loro niente, fanno congetture esattamente come chiunque sia rimasto appeso a una non verità, ci si aggrappano con tutta la forza, cercano un colpevole, da qualche parte in loro sopravvive forse ancora la speranza che sia stato tutto un errore e che loro figlio sia ancora da qualche parte da cercare. Ci sono due altri padri con me, di figli coetanei di Ani Laurent, e quando veniamo via mi raccontano che, benché non ci sia internet nella maggior parte delle case, i ragazzini sono tutti su Facebook, accaniti frequentatori degli internet cafè dove magari spendono l’euro che sarebbe destinato al loro unico pasto quotidiano. Ma nessuno di noi ha il coraggio di dire a quel papà che forse Ani Laurent faceva proprio così, che magari le informazioni le aveva maldestramente recuperate sulla rete e che ci ha provato, da solo, senza dire nulla a nessuno, senza complici, un’avventura autentica, scellerata. “Sì, il sogno dell’Europa ce l’aveva, ma come ce l’hanno tutti qui! E se ne parla così, come una fantasia”, mi confessa il padre. “Com’era Ani?”, domando, “era un bambino che lavorava bene, rispettoso, obbediente, docile, non violento. Noi vogliamo sapere perché, perché, perché? È un mistero”.

Chiedo se, nel caso suo figlio si fosse mostrato interessato a venire in Europa attraversando il deserto, magari passando per la Libia e per il mare, loro lo avrebbero mai lasciato. Il padre mi risponde così: “È la prima cosa che mi ha chiesto la polizia e mi sono pentito di aver detto di no, che non lo avrei mai lasciato, che il mio piano per lui era che studiasse, crescesse, trovasse un lavoro e poi se mai andasse in Europa legalmente. Ho risposto così, perché ero emozionato e ho detto la verità, ma così per loro è stato facile arrivare alla conclusione più ovvia: che mio figlio fosse scappato in quel modo perché non aveva alternative. In fondo, anche per passare per la Libia ci vogliono soldi o qualcuno che te li presti e noi non avevamo nessuno”.

Il pomeriggio, dopo quella visita straziante, mi sono fatta portare a vedere fuori dall’aeroporto il muro dal quale sarebbe potuto entrare, scavalcando. C’è del filo spinato interrotto sopra il muro e del filo nuovo luccicante, inserito evidentemente da poco: mi confermano che non c’era qualche settimana fa. Mi sollevo un po’ per guardare oltre: un prato, un aereo Air France sulla pista.

Tornata in Italia ho cercato i contatti con le ambasciate per portare l’attenzione su questa famiglia che non ha ricevuto le visite di nessun rappresentante del governo e della diplomazia né informazioni sulle indagini, né su dove si trovi il corpo e quando intendano restituirlo alla famiglia per celebrare la sepoltura a casa loro; una famiglia, ho sottolineato con tutti, in cui c’è una donna che ha urgente, immediato, bisogno di essere fatta vedere da un medico.

L’unica risposta che ho ricevuto per ora è quella di un ambasciatore che mi ha illustrato che la procedura ufficiale sarebbe che sia il cittadino che lo reclama a fare richiesta al governo per avere la salma quando la morte è stata riconosciuta in un altro paese. Il fatto è che mentre io, in due telefonate, posso avere il cellulare del massimo vertice della diplomazia di un Paese straniero che mi spiega “la procedura”, una famiglia che non ha nemmeno i mezzi economici per raggiungere l’ambasciata di riferimento come fa a sapere a chi chiedere? Come fa a reclamare un diritto inalienabile come quello di chiedere notizie del corpo del proprio ragazzo? Come fa a sapere di aver diritto a chiedere?

Questa, insomma, è una lettera aperta ai Governi, ai diplomatici, agli avvocati, alle associazioni che tutelano i diritti umani, a chiunque aiutare una famiglia straziata dal dolore e dall’impotenza, incontrata ad Abidjan, il giorno 25 gennaio 2020. L’Europa  era il sogno che ha portato via loro figlio: almeno restituisca alla famiglia il diritto di seppellirlo e a piangerlo?

PS, ore 12.30: è stata resa pubblica la mobilitazione  del governo Ivoriano, che avrebbe già attivato la macchina per il rimpatrio della salma.  Prima di pubblicare questo scritto, abbiamo scritto all’Ambasciata di Francia la situazione, come riportato nell’articolo, nonchè all’ambasciata della Costa d’Avorio in Francia. I genitori di Ani Laurent, incontrati proprio la mattina del 25, non hanno fatto alcun cenno alla imminente soluzione del caso, e anzi si sono appellati con ogni forza a chi poteva aiutarli.
Sia che la nostra visita sia stata un pungolo, sia che la macchina si fosse attivata autonomamente, possiamo dire che, in questa tragedia, quando le spoglie di Ani Laurant saranno tornate a casa, vi daremo, finalmente, una buona notizia.

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