Geopolitica
Altro che Salvini, l’uomo forte della destra europea è l’austriaco Kurz
INNSBRUCK – “Fuori i fasci dal governo” (Faschos raus aus der Regierung). Lo scorso 15 dicembre, a Vienna, ci si poteva imbattere in cartelli del genere. Erano i cartelli di migliaia di manifestanti (50mila per gli organizzatori, 17mila secondo la polizia locale), nella marcia di protesta contro il governo del giovane cancelliere Sebastian Kurz: una coalizione tra i popolari dell’ÖVP e l’FPÖ, partito di estrema destra guidato dal vicecancelliere Heinz-Christian Strache.
Cavallo di battaglia di Kurz è il pugno duro contro l’immigrazione irregolare. Il cancelliere invoca robusti controlli alle frontiere europee, il rafforzamento di Frontex, il rimpatrio di coloro che arrivano in Europa illegalmente. Ha persino ipotizzato il sostegno militare della Ue a “zone sicure” per i rifugiati nei continenti d’origine. Riferendosi ai migranti siriani, afgani e iracheni ha scritto sulla rivista Time: «Integrare con successo così tante persone con un background culturale molto diverso e livelli d’istruzione spesso più bassi» rappresenta «una enorme sfida per la nostra società».
Il governo nero-blu è al potere ormai da un anno, e alla maggioranza degli austriaci sembra piacere. «È un buon governo, ha a cuore gli interessi degli austriaci normali» dice a Gli Stati Generali una cameriera tirolese di mezza età. «A me Kurz piace, non è il solito politico corrotto» spiega Alexander, studente universitario del Vorarlberg. Certo, le risposte cambiano se si chiede l’opinione di un tassista nato in Serbia («Kurz è solo un ragazzo fortunato») o di Özgür, figlio di immigrati turchi e commesso in un negozio del centro storico di Innsbruck: «Tira una brutta aria, qui in Austria. L’anno prossimo, se Dio vuole, emigro in Germania».
Il discorso politico austriaco sembra essere ossessionato dal tema dei migranti. Quasi il 16% della popolazione è straniera, ma a preoccupare non sono soltanto i serbi, gli arabi e i turchi: pure gli immigrati della Ue (compresi tedeschi, cechi e polacchi) spaventano. Il welfare austriaco è generoso, la popolazione sta invecchiando: oggi l’età media supera i 42 anni, e sarebbe ancora più alta se non fosse per gli immigrati. Nella sola metropoli del paese, la “rossa” Vienna, il 35% dei residenti è nato all’estero.
Complici le reminiscenze del passato, infuria la sindrome dell’assedio. Kurz, con la sua parlantina suadente e fiorita e il suo aspetto da bravo giovanotto della piccola borghesia viennese, rassicura molti concittadini. Anche chi non ha votato per lui ne riconosce il dinamismo (probabilmente dovuto anche ai suoi 32 anni di età). E in un’Europa segnata dal lento crepuscolo della Merkel e dall’appannamento di Macron, il cancelliere si è ritagliato un ruolo di un certo peso: quello di “costruttore di ponti” (suo copyright) tra l’Europa liberale dell’ovest e i rumorosi, controversi sovranisti dell’est, in particolare Viktor Orbán in Ungheria e Andrzej Duda in Polonia.
Per il giornalista Gerhard Mumelter, corrispondente del quotidiano progressista Der Standard, la popolarità del governo nero-blu dipende soprattutto dal fatto che «dopo decenni e decenni finalmente l’Austria ha un governo che decide su qualcosa. Infatti dopo Kreisky [cancelliere della SPÖ dal 1970 al 1983] al governo c’era quasi sempre stata una coalizione fra i socialisti e i popolari: due partiti che, in sostanza, si detestavano, e si paralizzavano a vicenda».
Secondo Eric Miklin, professore associato al dipartimento di scienze politiche all’Università di Salisburgo, «dal punto di vista strategico il governo ha fatto un lavoro molto buono sinora. Per prima cosa, i due partiti evitano con attenzione ogni conflitto pubblico tra loro. Dopo molti anni di scontro aperto tra gli ex partner di coalizione SPÖ e ÖVP questa cosa, da sola, contribuisce a tenere alti i tassi di approvazione. Inoltre, sono molto bravi nel controllare l’agenda».
Per l’accademico, «quando affiora un tema che potrebbe danneggiare uno dei due partiti o entrambi, la coalizione se ne esce annunciando qualche misura polarizzante; che sanno causerà molto putiferio, ma che vedrà i loro elettori dalla loro parte. Di solito si tratta di misure correlate ai migranti, all’Islam e agli stranieri, cioè i temi che li hanno portati al potere». Come il piano per negare automaticamente il diritto di asilo ai migranti che arrivano in Europa “con l’aiuto” di trafficanti. Oppure la decisione di ritirarsi dal Patto globale ONU per i migranti, al pari dell’Ungheria, dell’America di Trump, della Cechia e della Polonia.
Oltre al decisionismo di Kurz, la coalizione nero-blu può contare su qualcosa che altri governi (ad esempio quello giallo-verde nostrano) non hanno: finanze solide e un’economia in salute. Secondo le stime del FMI, nel 2018 il PIL austriaco è cresciuto del 2,8%, e quest’anno dovrebbe crescere almeno del 2%; la disoccupazione è bassa; qualche mese fa, all’acme della paranoia sulla tenuta dei conti italiani, frotte di imprenditori e ricchi risparmiatori del Nordest si sono riversati non solo in Canton Ticino, ma anche nelle banche del Tirolo.
E con le aziende che assumono e gli FDI che salgono, il giovane cancelliere può permettersi di sguazzare nel suo elemento naturale: la politica internazionale. Il semestre di presidenza austriaca del Consiglio Ue è stato, per Kurz, un’opportunità per rafforzare le sue credenziali di co-protagonista dell’arena europea. Non bisogna dimenticare, del resto, che tra il 2013 e il 2017 è stato (giovanissimo) ministro degli affari esteri; in quella veste ha cercato di rilanciare il ruolo della piccola, neutrale Austria come “potenza diplomatica” (ruolo che Vienna aveva ricoperto al culmine della Guerra Fredda, appunto con Kreisky). Non a caso nel palazzo della Cancelleria Kurz ama lavorare proprio nella stanza che fu di Kreisky…
Da ministro Kurz si è occupato del dossier ucraino, siriano e iraniano, e oggi fa da pontiere tra Bruxelles e il gruppo di Visegrád (che comprende una buona fetta dell’ex Impero austro-ungarico). Come ai tempi della Guerra Fredda, Vienna cerca di promuovere la distensione tra l’Occidente e il Cremlino. «Vogliamo essere un ponte tra est e ovest, e tenere aperte le linee di comunicazione con la Russia» ha dichiarato lo scorso marzo Kurz. Nel 2018 Putin ha visitato l’Austria sia in qualità di presidente russo, che di ospite d’onore al matrimonio del ministro degli esteri Karin Kneissl (come mostra questo video).
Ma se sul fronte ucraino o iraniano Kurz è un paladino del dialogo, ha un atteggiamento un po’ diverso all’unico tavolo dove l’Austria ha davvero un peso, ossia quello dell’Alto Adige (in virtù dell’accordo di Parigi, alias accordo De Gasperi-Gruber, Vienna è potenza tutrice dei diritti degli altoatesini di lingua tedesca). Nel 2016 il suo vicecancelliere, in un’intervista con Repubblica, ha parlato di “concedere al Tirolo la possibilità di tornare unito” e di dare “la possibilità al Sud Tirolo di autodeterminarsi. Perché non può decidere se far parte dell’Italia o dell’Austria?”. L’idea (una flagrante violazione del diritto internazionale) fu liquidata da molti in Italia come una boutade a scopi elettorali.
In realtà Strache non scherza. Lo si è visto l’anno scorso, con la questione del “doppio passaporto”. Ossia la proposta del governo nero-blu di dare ai cittadini italiani residenti in Alto Adige e di lingua tedesca (e ladina) anche il passaporto austriaco. Più volte la Farnesina ha stroncato l’idea; in un comunicato di settembre ha parlato di iniziativa che rischia di «assumere potenziali caratteri di revanscismo anacronistico»; a luglio l’ambasciatore italiano a Vienna era stato incaricato di chiedere chiarimenti alle autorità austriache, e si era parlato di «iniziativa inopportuna e sostanzialmente ostile»; ma già a marzo, quando al ministero degli esteri c’era ancora Alfano, si era parlato di «insussistenza delle ragioni addotte da Vienna a difesa della proposta, che stride con gli elevati livelli di tutela e sviluppo delle minoranze in Alto Adige, con la realtà delle relazioni bilaterali, con la comune appartenenza all’Ue e con il diritto internazionale».
Anche il presidente della provincia autonoma di Bolzano, il centrista Arno Kompatscher, ha espresso perplessità. A suo parere alcuni esponenti della FPÖ si sarebbero comportati alla stregua di “Elefanten im Porzellanladen”, il proverbiale elefante in una cristalleria. Sul finire del 2018 la bozza del progetto sul doppio passaporto ha subito un’apparente battuta di arresto: è stata passata ai media, probabilmente per tenere alta la temperatura del dibattito, ma non alla commissione parlamentare competente, irritando l’opposizione socialista, preoccupata per le relazioni tra Austria e Italia.
Secondo la stampa austriaca, con tutta probabilità la questione riemergerà nel corso del 2019, e sarà utilizzata dalla FPÖ come argomento elettorale in vista delle europee. Del resto la FPÖ non ha mai mostrato particolare amore per l’Italia: ad esempio ha proposto un euro del sud per i paesi dell’Europa meridionale. Il popolare Kurz, dal canto suo, è stato uno dei più duri critici della recente manovra del governo Conte. Con buona pace di chi, in Italia, si aspettava un po’ di solidarietà da un esecutivo con una forte connotazione populista…
Se forse è eccessivo parlare di revanscismo austriaco, di sicuro la nostalgia per la grandeur perduta è piuttosto viva. L’Impero resta nel cuore di molti austriaci (specie la figura dell’imperatore Francesco Giuseppe) e il 2018 è stato costellato da mostre, libri e articoli sui cento anni trascorsi dalla fine della monarchia asburgica. Come altri politici prima di lui, anche se con più astuzia, Kurz cerca di sfruttare la cosa a suo vantaggio, ma senza darlo troppo a vedere.
«Non ci sono attitudini neo-imperialiste in Kurz, sebbene esista nell’ÖVP un certo sentimento di nostalgia per l’Impero asburgico. La sua politica estera è incentrata, principalmente, sulla sua persona. È in questo modo che ha gestito la presidenza austriaca della Ue», dice Heinz Gärtner, scienziato politico dell’International Institute for Peace (IIP) e dell’Università di Vienna.
Come un novello Metternich, Kurz cerca di non scontentare nessuno: né la Germania (storico partner dell’Austria in Europa) né il gruppo di Visegrád, né i russi né gli americani. «Il FPÖ è un convinto sostenitore dell’amministrazione Trump per ragioni ideologiche, tuttavia vuole avere buone relazioni anche con Putin per via della sua attitudine nazionalista – dice Gärtner –. In ogni caso, l’Austria ha forti legami economici non solo con la Germania e gli USA ma pure con il gruppo di Visegrád e la Russia, e il mondo degli affari non vuole che si taglino i rapporti con questi paesi, Russia inclusa».
Per comprendere l’Ostpolitik di Kurz, basta dare un’occhiata ai dati dell’export. Per l’Austria l’Ungheria è un cliente importante quanto la ben più ricca Francia, la Cechia tallona il Regno Unito, le esportazioni complessive verso la Polonia e la Russia sono la metà di quelle verso gli USA. Agli occhi delle imprese austriache, la piccola Slovacchia vale quasi quanto la Cina. Il punto, spiegano fonti dell’imprenditoria sudtirolese, è che per l’Austria il boom delle economie est-europee è una «manna dal cielo», dato che ungheresi, slovacchi, cechi, polacchi, sloveni, rumeni e russi importano beni ad alto valore aggiunto, come pezzi di auto, derivati del petrolio, orologi, videogiochi, medicinali.
Al contrario, l’affinità tra l’estrema destra austriaca e l’Europa dell’est ha poco a che fare con l’economia, e molto con la politica. Piacciono la retorica nazionalista e l’ostilità verso George Soros, piacciono le giaculatorie contro un’Unione europea che non è mai stata tenera con la FPÖ. Nessuno ha dimenticato, del resto, la dura reazione della Ue quando il popolare Schüssel andò al potere in coalizione con il partito di Jörg Haider.
Bisogna anche dire che proprio di recente la Central European University fondata da Soros ha scelto di traslocare da Budapest a Vienna. L’Austria del 2019 è così: un mosaico di luci e ombre. Perché, se è vero che nelle Burschenschaft (associazioni studentesche), vivaio della reazione, capita che si intonino canzoni naziste (un grosso scandalo è esploso a inizio 2018), è anche vero che il presidente della repubblica è il verde Alexander Van der Bellen. Se Kurz è molto amato, le forze progressiste sono in recupero, sospinte da un vento che ricorda quello che ha soffiato di recente in Baviera, Belgio, Alto Adige: ad esempio il nuovo borgomastro di Innsbruck è il verde Georg Willi. Ancora, è vero che ci sono stati vari tentativi per intralciare la libera stampa (qui, qui e qui) ma è anche vero che la società civile si sta mobilitando, crescono le tirature di testate coraggiose come Falter, la giustizia austriaca è libera e (almeno per ora) al riparo da contro-riforme e intimidazioni come quelle verificatesi in Polonia e Ungheria.
Spiega David F. J. Campbell, professore associato del dipartimento di scienze politiche dell’Università di Klagenfurt, in Carinzia: «In varie occasioni Kurz ha detto che le dichiarazioni e i verdetti della Corte costituzionale devono essere accettati e rispettati, e lo stesso vale per la Corte europea di giustizia. Si tratta di una linea rossa, non così chiara quando si guarda ad altri paesi a est dell’Austria».
Alla fine Vienna è in preda allo Zeitgeist che imperversa, con più o meno forza, nell’intero Occidente. Per Stefano Cavazza, docente di storia contemporanea dell’Università di Bologna, «si tratta della crisi della democrazia che abbiamo conosciuto dopo il 1945. Per decenni l’Europa era stata governata dal convergere di socialdemocratici e moderati verso il centro, con la creazione di un patto sociale di cui i partiti erano i garanti, e in virtù del quale i cittadini ricevevano una serie di benefici, dalla crescita economica al welfare. Quel sistema adesso è in crisi». La coalizione nero-blu in Austria potrebbe essere la prova generale di una grande coalizione tra popolari ed estrema destra all’Europarlamento. Un sogno per il giovane Kurz, che verrebbe così consacrato come il vero alfiere della destra continentale. Il primo “populista di destra dal volto umano” (Spiegel dixit) entrerebbe, non ancora trentatreenne, nei libri di storia europei, dopo essere finito sulle copertine di Time e Newsweek. Con buona pace di leader di destra, centro e sinistra come Salvini, Orbán, Macron, Rivera o Renzi.
Immagine in copertina: www.kremlin.ru (Creative Commons Attribution 4.0)
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