Immigrazione

Al confine con la Siria, dove la felicità è imparare a contare

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23 Giugno 2019

Akkar (Libano) – La felicità, per Ahmed, è l’acqua calda. La felicità è sua madre che, da qualche settimana, su una bombola riscalda le pentole, e permette a lui e ai suoi quattro fratelli di farsi la doccia calda. Ma la felicità è anche non sentire più il rumore delle bombe, non dover correre quando gli aerei si avvicinano nei rifugi, non dover aspettare che faccia giorno.

“Dormiamo – mi spiega Ahmed, gli occhi da adulto sul suo viso di bambino che ha appena compiuto otto anni – in dieci in una stanza, per terra. Ma va bene così, perché almeno sappiamo dove stare. Solo che a volte non riesco a prendere sonno, perché ci sono troppi rumori”. Parla, Ahmed, con una voce incerta che cerca sostegno nello sguardo della traduttrice che ho accanto, in questa grande tenda – dei pali tenuti insieme da degli striscioni pubblicitari – che sta al centro del campo informale dove ci siamo incontrati ad Akkar.

Il campo informale è un grande spiazzo sterrato dove stanno, appoggiate le une alle altre, queste dimore improvvisate che brulicano di persone: bambini, tanti bambini, ma anche donne spesso in attesa, e qualche anziano. Vista da qui, la Siria è un brandello di terra che se ne sta all’orizzonte. Dista nemmeno dieci chilometri, eppure i ricordi di Ahmed e della sua famiglia sono fermi a otto anni fa, prima che tutto cominciasse, quando il Paese era un prospero esempio per l’intero Medioriente.
“La Siria – mi spiega Ahmed, mentre i parenti tutto intorno annuiscono – era il paradiso. Campi verdi, pace, serenità. Il cielo era blu, di un blu chiarissimo e noi bambini giocavamo sempre”.

Il padre, Hassan, racconta dei servizi gratuiti del Paese come la scuola e la sanità, dice che lui e i suoi famigliari non erano ricchi, ma vivevano dignitosamente, non come qui “dove non abbiamo niente”. Spiega, Hassan – con le mani che si muovono, e la parlata veloce – che oggi lavora in modo saltuario come agricoltore nei campi di verdure, ma anche di aranci e limoni, che stanno nella zona: lo pagano un dollaro e cinquanta l’ora. Ogni tanto Ahmed lo accompagna: “aiuto mio padre” spiega il bambino con una voce che non ha sfumatura, mentre gli occhi guardano in basso. Non dice che lo pagano, quando va bene, quattro dollari per tutto il giorno che è fatto di dieci, ma anche dodici ore di impegno. Non dice neanche – ma forse neppure lo sa – che in Libano gli immigrati possono fare solo una manciata di impieghi (come il muratore e l’agricoltore), e che per lavorare bisogna essere in regola con i documenti (peccato che le cifre richieste per il VISA siano così alte che praticamente nessuno può permettersi di pagarle). Dice invece, Ahmed, che gli piace usare la bicicletta e quando può ama andare “al centro”. Il centro è una scuola non molto distante, dove impara a leggere e a scrivere, dove gli insegnano l’inglese e la matematica, e lo aiutano a mettere in pratica un sacco di precetti che gli saranno d’aiuto nella vita (dal punto di vista personale e psichico). Si tratta di una delle attività del progetto “Back to the future” portato avanti da Terre des Hommes Italia e Olanda, Avsi e War Child Holland e finanziato con i soldi del Madad Fund, il Regional Trust Fund europeo creato nel 2014 per rispondere all’emergenza siriana. Il tentativo del progetto – che opera fra Libano e Giordania – è quello di portare i bambini siriani a scuola e sostenere i bambini libanesi e giordani che rischiano di abbandonarla per questioni economiche e sociali.

 

A Young girl attends lessons inside Moasad Center School in Saida. December 4th, 2017. Saida, Lebanon. Diego Ibarra Sánchez / MeMo for Terre de Hommes

Nel 2018 “Back to the future” ha coinvolto quasi 100mila persone, distribuite fra bambini beneficiari, persone coinvolte nelle attività e operatori. A spiegarmi l’iniziativa con dovizia di particolari è Deborah Da Boit – una cascata di riccioli biondi e occhi chiari, il piglio deciso di certe donne abituate a fare da sole -, coordinatrice regionale di Terre des Hommes per il Medio Oriente: “I minori siriani sono 450mila in Libano e 240mila in Giordania. Insegnare loro è restituire alla comunità un futuro che per troppi anni è stato sospeso”. Pensare che dei tre milioni di bambini siriani rifugiati (su un totale di sei milioni di profughi) la maggioranza non abbia i minimi precetti scolastici forse restituisce il quadro di una situazione gravissima, dove l’infanzia è ampiamente violata. Protagonisti sono bimbi come Ahmed che a causa del conflitto hanno perso tre, quattro, cinque anni di scuola. Bimbi che a dieci anni non sanno né leggere né scrivere. Bimbi che non possono andare a scuola perché devono aiutare a lavorare i genitori, perché non hanno abbastanza soldi per l’autobus o perché non vengono accettati nel turno pomeridiano, che in Libano è stato attivato per fare fronte all’emergenza siriana.

“Ad Hama – mi racconta ancora Ahmed, con un filo di voce – avevamo una casa, degli animali, la campagna dove lavorava papà. Stavamo sempre insieme con i cugini…”. La voce si spezza. È difficile restare impassibili di fronte alla disperazione che negli ultimi otto hanno ha martoriato i profughi siriani. È impossibile non fare niente, non dire niente, guardando gli occhi di questo ragazzino-adulto che ascolta il padre raccontare dell’esodo cui anche lui, piccolissimo, ha preso parte: “Siamo partiti di notte, senza portarci dietro nulla. Solo i vestiti che avevamo addosso, i bambini sulle spalle. Eravamo trenta persone, abbiamo viaggiato per cinque giorni e cinque notti sotto i bombardamenti, attraversando campi minati, non guardandoci indietro”. Mentre parla, la moglie serve in piccoli bicchieri di vetro del the speziato. Lunghe pause di silenzio rivelano ciò che non si può dire: gli amici persi per la strada, gli aerei che volano sulle case, la paura di morire, il non avere niente da mangiare, e neppure da bere. Ma, quelle stesse parole, raccontano anche la speranza per il futuro. “Qui – aggiunge Hassan – siamo in attesa, aspettiamo di poter tornare a casa nostra. Intanto, anche se la situazione è drammatica, almeno i nostri figli possono studiare”. Ahmed ha imparato al centro a leggere l’arabo, e sta adesso scoprendo le lettere dell’alfabeto inglese. “Mi piace – spiega lui – anche perché mi hanno insegnato la matematica. Per farlo ci hanno dato dei tablet, che io non avevo mai visto prima”. Un sorriso gli illumina il volto. E per un attimo sembra di nuovo non più un adulto, ma un bambino.

 

Foto Diego Ibarra Sanchez. 

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