Giornalismo

Simonetta Fiori: “Investimenti per la scuola pubblica, la ricetta per alzare il livello culturale in Italia”

15 Aprile 2025

Figlia d’arte e allieva di Eugenio Scalfari, dal quale afferma di aver imparato molto, non solo a livello professionale, ma anche umano e civile, per Simonetta Fiori, da 35 anni a Repubblica, la cultura è sempre stata la forma di giornalismo prediletta, e quando nel 1989 Eugenio Scalfari riesce a varare il primo inserto culturale di Repubblica “Mercurio” lei si fa trovare pronta. Dal suo osservatorio racconta come è cambiato in questi anni il giornalismo culturale: a popolarità diventa più importante del pensiero critico, con inevitabili conseguenze sulla qualità del dibattito pubblico. Intervistare una delle maggiori intervistatrici italiane è stato per me un grande onore.

Questa è solo un’anticipazione di un’intervista integrale che sarà pubblicata nella seconda metà del 2025, in un libro intitolato “Giornaliste Italiane” un progetto nato con l’editore Luca Sossella e che comprende già un primo volume “Giornalisti Italiani” attualmente in libreria. L’idea è quella di proseguire il viaggio, iniziato con i giornalisti, attraverso la storia del giornalismo italiano e del nostro Paese, dagli anni ’70 ad oggi. Come già successo per le interviste ai giornalisti, anche per questo secondo volume, alcune parti delle interviste alle giornaliste, soprattutto quelle che riguardano argomenti di attualità, saranno pubblicate in anteprima su Gli Stati Generali.

Come è cambiato in generale il modo di fare giornalismo e in particolare come è cambiato per te in questi anni di carriera?

Per me il mestiere è rimasto lo stesso, la cassetta degli attrezzi è sempre quella: devi solo adattare gli strumenti alle diverse piattaforme.  Sono nata come giornalista della carta stampata, ho imparato a esprimermi attraverso le immagini per il digitale, e oggi intervengo spesso in festival e presentazioni: non basta più saper scrivere, ora occorre anche saper parlare in modo incisivo e chiaro. È cambiato moltissimo il mestiere di chi cura le diverse edizioni online: oggi un giornalista incaricato dell’aggiornamento dell’home page del giornale deve buttare dentro le agenzie con la velocità del fulmine, senza il controllo delle fonti che era richiesto al giornalista della carta stampata. Ho visto molto cambiare in questi anni il giornalismo culturale o, meglio, ho visto cambiare il mondo che i “culturisti” devono raccontare: siamo passati da una società culturale elitaria – con i suoi clan, i suoi salotti esclusivi, con le personalità carismatiche, i grandi maestri e le case editrici che volevano cambiare il mondo – a una società mediatica dove contano moltissimo le apparizioni in Tv, i social, i followers e di conseguenza l’editoria fa molta più fatica con i libri più complessi o con le opere di autori sconosciuti al grande pubblico. Nessun rimpianto per la cultura elitaria, ma oggi la popolarità è più importante del pensiero critico, e questo ovviamente ha delle conseguenze sulla qualità del dibattito pubblico. I giornali devono tener conto delle trasformazioni e quindi devono esplorare ciò che accade su Tik tok, oltre che nell’accademia. Credo che oggi la sfida sia tenere insieme la sfera della ricerca intellettuale, e quindi i nuovi paradigmi per leggere un mondo che cambia velocemente, con la produzione pop che circola nei social media. La divaricazione tra questi due mondi apparentemente inconciliabili – il dibattito colto e il dibattito mediatico – è uno dei problemi che affliggono la nostra democrazia.

Ti rivolgo la stessa domanda che tu hai fatto ai tuoi intervistati per la raccolta La biblioteca di Raskolnikov”, quali sono i libri che ti hanno aiutato a costruire la tua coscienza democratica?

Uno dei primi libri in cui mi sono imbattuta da ragazzina sono le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, non perché fossi una lettrice precoce ma perché mio padre pubblicò alla metà degli anni Sessanta una biografia per Laterza che per la prima volta completava il ritratto del pensatore, aggiungendo alla “testa” gli elementi umani che aiutavano a far vedere il personaggio nel suo tormentato vissuto, nei giorni della fame, dell’amore, della malattia in galera. Così papà mi fece leggere alcune lettere scritte ai figli: in particolare una missiva a Delio sull’importanza della storia, che divenne tra noi una sorta di mantra ripetuto anche in modo giocoso. “Tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo… non può non piacerti più di ogni altra cosa…”. Diciamo che mi è stata accesa una lampadina. Un altro libro fondamentale di quella stagione è stato Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, dove veniva raccontato l’antifascismo torinese attraverso la quotidianità famigliare dell’autrice: mi colpiva il tono affettuoso del racconto, anche la straordinaria ironia, dalla quale ricavai che la lotta politica non escludeva il senso dell’umorismo. Una terza lettura formativa me l’ha regalata Italo Calvino, con Il sentiero dei nidi di ragno. La Resistenza vi è raccontata in modo non agiografico, e la verità della guerra civile è contenuta nel dialogo tra il comandante Ferriera e il commissario Kim: anche tra i partigiani ci sono dei mascalzoni, e tra i ragazzi di Salò degli idealisti mossi da sentimenti puri; ma i primi stanno dalla parte della democrazia, i secondi dalla parte di Hitler e delle camere a gas. Anche grazie alla lettura di Calvino, si andava formando una geografia mentale, con i confini necessari e le sue bussole. Potrei continuare con Elio Vittorini, ma qui mi fermo.

Quali politiche dovrebbero essere messe in atto per alzare il livello culturale del nostro Paese?

Innanzitutto una maggiore attenzione alla scuola pubblica, quindi più investimenti, una politica seria, una cura del ceto degli insegnanti, il peggio pagato nel mondo. La scuola è la vera palestra formativa, capace di dare strumenti ai ragazzi per navigare in un presente tumultuoso. E fino a diversi decenni fa era anche un prezioso ascensore sociale: quanti accademici illustri provenivano da famiglie povere e socialmente deprivate? Oggi vanno avanti solo i figli dei laureati, ragazzi che hanno già a casa un certo numero di libri. Ma questa è la vera diseguaglianza. Purtroppo anche le indagini più recenti ci dicono che gli adolescenti hanno smesso di leggere, sicuramente distratti dagli smartphone ma anche perché i libri costano: le biblioteche scolastiche potrebbero avere un ruolo prezioso. Ma quante funzionano davvero?

Cosa ne pensi della nuova riforma di Valditara?

Bene il ritorno del latino nelle scuole medie, come l’inserimento della Bibbia nei programmi di scuola primaria: ovviamente intesa non come lettura confessionale, ma come fondamento culturale irrinunciabile. Conservo qualche perplessità sul programma di storia, che risente della concezione nazionalistica e identitaria di uno dei principali ispiratori, Ernesto Galli Della Loggia. Pongo una domanda: in un Paese che cambia con una grande velocità, dove il dieci per cento degli studenti è figlio di emigrati, possiamo noi insegnare una storia italo-centrica? Non dovremmo sforzarci di allargare lo sguardo al mondo che è passato per la penisola? Qualche anno fa è uscita da Laterza una “Storia mondiale dell’Italia”, curata da Andrea Giardina, che offriva un punto di vista molto diverso rispetto alla storiografia nazionale: credo che gli artefici dei programmi di storia dovrebbero tenerne conto.

Il pericolo di censura” dell’informazione oggi è reale? E tutto questo come influenzerà i prodotti culturali e la loro diffusione?

Viviamo ancora in democrazia, anche se mi inquietano alcuni segnali di cedimento delle fondamenta, soprattutto quando i governanti mostrano di non avere più a cuore la separazione tra i poteri: esecutivo, giudiziario, legislativo. E m’inquieta anche l’insofferenza che alcune importanti cariche dello Stato manifestano verso i giornalisti.  Il clima, insomma, non è incoraggiante. Però non possiamo dire che i principali quotidiani italiani oggi subiscano censure, forse qualche condizionamento: alcuni sono più liberi di criticare i governanti, altri mi sembrano più cauti, e i giornali di destra ciecamente schierati in difesa della premier. Il pericolo di censura lo vedo più in Rai, sottoposta a una vigilanza politica molto occhiuta: te ne accorgi dalla scelta delle notizie nei Tg o da come vengono confezionati i servizi giornalistici. Però poi ci sono programmi liberi e felici, come quelli di Giorgio Zanchini, bravissimo giornalista culturale, o Linea notte condotta dalla capace Monica Giannotti o anche Splendida cornice di Geppi Cucciari: faccio solo pochi esempi, tra i tanti. Questo significa che gli spazi di libertà si possono difendere con la bravura e il carattere.  Sulla circolazione culturale vedo un altro problema che non ha a che vedere con la censura ma con il club esclusivo degli opinionisti televisivi che oggi contribuiscono a formare la coscienza collettiva: non più di dieci/quindici colleghi che sdottoreggiano su tutto. Intendiamoci, alcuni di loro sono bravissimi. Mi domando però se non sarebbe più interessante dare la parola a chi studia direttamente le questioni.

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