Giornalismo
Platone, Fedro, la scrittura e lo smartphone
Colgo l’occasione di un articolo sul Foglio dell’11 gennaio, scritto da Franco Lo Piparo, Per Platone la scrittura causava ignoranza, noi incolpiamo lo smartphone, in cui prende a pretesto Platone e i dialoghi del Fedro (che non è uno dei protagonisti del Grande Fratello di molti anni fa) per fare il suo punto su quelli che lui definisce pessimisti apocalittici.
E chiama in aiuto Guliano Ferrara che, in un suo intervento del 3 gennaio, ribalta l’aforisma di Alberto Ronchey “Un pessimista è un ottimista che si è informato” con “Un pessimista è un ottimista che è stato disinformato”. Poi Lo Piparo continua dicendo che i pessimisti sono sempre apocalittici e non conoscono la Storia oppure mostrano di non conoscerla bene.
Ma perché tutto questo pippone? Perché secondo i pessimisti apocalittici, con in mano il rapporto Censis che denuncia il grave stato di analfabetismo del Paese Italia oggi, il 30% degli italiani non sa chi fosse Mazzini o crede che L’infinito non sia opera di Leopardi ma di D’Annunzio, oltre al fatto che il 35% non sia in grado di comprendere ciò che legge. E così via. Lo Piparo sostiene che i pessimisti apocalittici incolpano la tecnologia di questa ignoranza di ritorno e che fanno finta di ignorare che un secolo fa gli analfabeti fossero mlti di più.
E tutta una tirata che non finisce più su chi ha sempre una resistenza alle tecnologie, a partire dalla stampa di Gutenberg, colpevole di aver condotto la scrittura alla portata di tutti e demonizzata, all’epoca, per questo. E cita, anche a sproposito e fuori contesto, le opinioni popolari per cui i nostri nonni dicevano “«stai troppo davanti alla televisione, rischi di diventare stupido» oppure «stai troppo sui libri, vai a giocare con gli amici»”
A fondare la sua tesi sui pessimisti apocalittici e la paura dell’innovazione, Lo Piparo, per fornire precedenti illustri, scomoda Platone e il suo Fedro, in cui Socrate, in dialogo con Fedro, cita un antico racconto egiziano dove lo scienziato Theuth (che in realtà è un DIO e non uno scienziato, che ha inventato il calcolo, la geomteria, l’astronomia e altro, tra cui la scrittura) illustra al re Thamus d’Egitto le sue abilità, commentandole con lui. Ma Thamus, a un certo punto, sulla scrittura ha dei dubbi:
” Ma quando si giunse alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli egizioani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza»
E il re rispose: «Ignegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora, essendo tu padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria ma del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tu uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati conoscitori di opinioni diverse invec che sapienti» “
Il nocciolo della questione è che Platone, per bocca di Socrate, deprezzi la scrittura in favore dell’oratoria, paragonando chi legge i libri scritti a chi usa lo smartphone oggi, secondo i pessimisti apocalittici, ossia una paura aprioristica della tecnologia. Incolpandola della decadenza odierna, secondo Lo Piparo. Mah.
Ma Platone distingue tra sapienza e opinione, sophia e doxa, e il fine ultimo dovrebbe essere la verità (aletheia).
Partiamo dalla definizione fuorviante di pessimista apocalittico, sia di Lo Piparo sia di Ferrara. Io propenderei per una visione realistica, ossia di un soggetto informato, che possa partire da un ottimismo o un pessimismo è relativamente importante.
Lo smarthphone e, in genere, la tecnologia non sono di per sé né buone né cattive, sono solo dei mezzi. Anche la scrittura può assumere caratteristiche varie, dovute innanzi tutto ai contenuti e poi anche la forma, lo stile, l’eleganza, e così via. Una inutile biografia di uno scadente personaggio televisivo non ha niente a che vedere colla Critica del Giudizio o anche col Conte di Montecristo, eppure sono opere scritte. Forse Platone non le conosceva, neanche Madame Bovary e Delitto e castigo. Non parliamo poi dei dogmi religiosi nelle Sacre Scritture, che hanno fatto dei danni irreparabili.
E il fatto che la maggior parte delle persone oggi usi lo smartphone, che potenzialmente sarebbe uno strumento diabolico di conoscenza perché, attraverso la rete, ti farebbe accedere ad archivi alcuni decenni fa inimmaginabili e irraggiungibili, non significa che codeste persone non siano analfabeti funzionali e usino lo strumento per imbottirsi di minchiate e di video dementi su tiktoktak (come lo chiamava il compianto ex Cavaliere, quello dell’aeroporto di Malpensa) o per stare a sentire le fake news di Elon Musk su X e magari crederci pure.
La tecnologia, come dico sempre, amplifica l’esistente. Socrate, in quel dialogo, non era contro la scrittura tout court ma prediligeva l’oratoria, riservata ai filosofi, i quali utilizzavano comunque la scrittura accompagnandola con spiegazioni oratorie. E lo illustra più avanti, nel dialogo. Inoltre il bagaglio culturale che poteva esserci ai tempi di Platone e la possibilità di decifrare la scrittura (che si faceva a mano e su rotoli cartacei) per gli abitanti dell’epoca era minima rispetto all’attualità e riservata a pochissime persone. Proviamo a relativizzare, ogni tanto.
I realisti, e non pessimisti apocalittici, osservano come oggi lo smartphone nel suo uso parossistico crei dei danni all’apprendimento e alla capacità intellettiva di chi lo usa senza criterio, perché è innegabile che la percezione del tempo e la frammentazione del sapere, su un minuscolo schermo che dopo un po’ ti fa girare gli occhi, siano assolutamente ridotte rispetto alla lettura di un testo stampato, che richiede più attenzione e quindi un maggior impegno intellettivo.
Osservare questo non significa essere contro la tecnologia per partito preso come invece vorrebbe far intendere Lo Piparo, almeno, io l’ho interpretato così. Anzi, secondo me significa proprio l’opposto, è un messaggio da parte di quei “pessimisti apocalittici”: stiamo attenti che la troppa tecnologia, peraltro in perpetua obsolescenza programmata, in mani inesperte non distrugga le capacità critiche delle persone e quindi corriamo ai ripari. Apocalisse, nel suo significato primario significa “rivelare, togliere il velo”, e forse farebbe bene a tutti avere un’attitudine un po’ più apocalittica ossia di togliere il velo da tante cose e affrontare la realtà.
“Dal Censis all’Ocse, ogni scusa è buona per criminalizzare il rivoluzionario telefonino e in generale le innovazioni. I pessimisti apocalittici che hanno paura della tecnologia hanno un padre nobile che più nobile non si può.”
Nella sua conclusione Lo Piparo mostra quindi un’opinione (doxa) ben lontana dalla sapienza (sophia) e quindi anche lontana dalla verità (aletheia).
E poi, lo smartphone può essere una delle tante concause legate a una trasandatezza istituzionale nei riguardi dell’istruzione e della cultura, ne abbiamo visto le conseguenze con Sangiuliano di recente. Il fenmeno è ben più complesso di ciò a cui lo riduce Lo Piparo ma di sicuro una tecnologia usata malissimo, e senza i filosofi che ci accompagnano, dà i suoi frutti avvelenati. Meglio un po’ di sano realismo piuttosto che un entusiasmo acritico nei confronti del pur utilissimo smartphone. Quindi, forse, Socrate aveva ragione: la scrittura senza uno che te la spiega (se non sei in grado di decifrarla con coscienza) può trarre in inganno.
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