
Giornalismo
Per un tesserino e la dignità, il destino sospeso dei reporter in erba
Sospesi in un limbo, a metà tra lavoratori e tirocinanti, i “wannabe giornalisti” sono spesso vittima di raggiri e comportamenti antisindacali.
Questo articolo è stato pubblicato sulla newsletter di Puntocritico.info il 7 Marzo 2025
Che il mondo del giornalismo non sia uno dei più semplici, lo sanno migliaia di lavoratori che (troppo) spesso devono lottare per i loro diritti nelle redazioni di piccoli e grandi gruppi editoriali. Tra la sovrapproduzione di informazioni non sempre verificate, la crisi dell’editoria e del ruolo stesso del giornalista, chi si trova già dentro al sistema comunicazione italiano deve difendere i (pochi) diritti che ha. C’è anche una zona grigia, però, di cui non si sente parlare. In un Paese in cui per poter ottenere il tesserino da pubblicista ci sono determinate condizioni da rispettare, in termini di ore lavorate e retribuzioni, c’è chi si approfitta della buona volontà di quanti vogliono avvicinarsi al mestiere. E imbastisce veri e propri microuniversi di caporalato difficili da individuare e punire..
Scrittura in (s)vendita
L’Italia è l’unico Paese al mondo ad avere un ordine professionale per i giornalisti. Non l’unico ad avere un’associazione della stampa, ovviamente, ma l’unico in cui è prevista l’iscrizione obbligatoria a un albo per esercitare la professione. In Italia, per diventare giornalisti, si potrebbero percorrere in teoria diverse strade, ma la crisi dell’editoria e i tagli nelle redazioni ne hanno lasciate di fatto aperte poche. Una, è frequentare una delle scuole di giornalismo convenzionate con l’Ordina Nazionale dei Giornalisti. Scuole di specializzazione private o semi private, dai costi decisamente non popolari se non proprio inarrivabili, che ultimamente sono tornate sotto i riflettori e non per nobili motivi. Una volta terminati i due anni in questi centri, tuttavia, è possibile accedere direttamente all’esame da professionista e ottenere finalmente un titolo quantomeno simbolico del proprio impegno. Altrimenti, c’è l’altra strada, sempre più difficile da percorrere: il praticantato di almeno 18 mesi in una redazione, che è tuttavia sempre meno diffuso, con le redazioni che piuttosto che assumere preferiscono precarizzare il lavoro. Per questo l’Ordine ha chiesto di riformare le regole di accesso all’esame, permettendo anche a chi non gode di questo tipo di contratto all’interno di una redazione di accedere alla professione. La riforma però, dopo una prima presentazione in Senato, ad oggi non ha proseguito il suo percorso.
C’è però una terza via, ibrida e ambigua: quella percorsa dai “reporter in erba”. Persone che a tutti gli effetti esercitano per un certo periodo la professione come “abusivi” ma che possono tuttavia iscriversi all’Ordine se pagati per un periodo di tempo continuativo e comunque almeno un importo minimo. Dal sito dell’ODG si legge che per: “Per iscriversi nell’elenco dei pubblicisti, è necessario aver svolto un’attività giornalistica continuativa e regolarmente retribuita, per almeno due anni (art. 35 legge n. 69/1963)”. Un sistema che ha un limite. In alcuni casi, ad esempio, il “redattore in erba” riceve una “falsa retribuzione”: prende accordi con la testata perché il lavoro venga ufficialmente retribuito, ma in realtà poi gli viene imposto di restituire il compenso. Così dai bonifici risulta che sia stato pagato, quando in realtà non è così.
Quando finalmente il trofeo di tanta fatica, il tesserino da pubblicista, arriva nelle loro mani, questi lavoratori sono riconosciuti come giornalisti. Ma prima, quando ancora devono arrivare a questo traguardo, si trovano di fatto senza tutele in una vera e propria terra di nessuno.
Né giornalisti né praticanti
«Spesso ne sentiamo parlare come di “praticanti” ma il termine è fuorviante: il praticante è o quello di una scuola di giornalismo, o quello che comunque ha un contratto di praticantato, cioè una tipologia contrattuale ben definita» precisa anzitutto Renato Sirigu, Presidente del consiglio di disciplina della Liguria. Per diventare praticanti è necessario essere assunti con un contratto giornalistico e svolgere 18 mesi di attività presso una testata. Quindi, se siete aspiranti giornalisti e vi viene presentato un contratto per quattro lire come “praticantato”, sarà leggere bene tutte le clausole prima di firmare. «Il problema è anche che si tratta di un problema più etico, che deontologico, perché fintanto che queste persone non vengono iscritte nell’Ordine non hanno accesso alle tutele deontologiche stabilite, ad esempio, dalla Carta di Firenze». Il riferimento è alla carta deontologica, un codice etico che, troppo spesso, rimane inapplicato e che stabilisce il dovere di solidarietà tra membri della stampa e nelle redazioni. Ciononostante, non è solo l’Ordine a poter intervenire, come ricorda : «In casi di sfruttamento e abuso sul lavoro, ci si può e ci si deve rivolgere alla magistratura».
In alcuni casi, ottenere il riconoscimento del proprio lavoro in redazione si può. «In passato abbiamo preso in carico anche lavoratori non iscritti all’Albo, ma che hanno scritto per testate di questo tipo. In questi casi abbiamo anche segnalato la questione all’Ordine perché potessero vedere riconosciuti i mesi di lavoro nel computo della durata necessaria per ottenere il tesserino» spiega Matteo Naccari, segretario aggiunto della Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI). Il sindacato unico dei giornalisti negli anni ha organizzato diverse azioni per promuovere l’equa retribuzione dei redattori e il rispetto della libertà di stampa.
Penne in saldo: i “newser”
Se però le grandi testate e i macro gruppi editoriali sono più tracciabili, nel dedalo del web le redazioni fasulle fanno facilmente perdere le tracce. Le testate dove è più frequente il “caporalato delle penne” sono siti all news, gossip, lifestyle ma anche siti di informazione sportiva e gaming. Un sistema di scatole cinesi di piccole testate online di cui spesso è difficile risalire ai responsabili. In questo “habitat online” nasce il fenomeno dei “newser”, i “giornalisti copincolla”: redattori costretti a produrre articoli brevi o brevissimi (circa 500 caratteri) a un centesimo circa a parola, a un ritmo di dieci pezzi all’ora circa. Il che comporta, per ovvie ragioni di tempo (e di sopravvivenza) che spesso questi redattori non facciano altro che dei “frankenstein” di pezzi altrui, tagliando e incollando in un patchwork pezzi di altri e ricaricandoli, spesso con titoli clickbait per attirare lettori. Così il sito web raccoglie le entrate dei banner pubblicitari e resta continuamente aggiornato. Mentre i redattori e le redattrici sono spesso vittima di mobbing, insulti, ricatti, retribuzioni indegne. Vengono trattati come “penne da macello”. Non ti stanno bene le loro regole? Non c’è problema: i “capiredattore fantasma” troveranno qualcun altro per sostituirti.
«Quello che possiamo fare – continua Naccari – sono due cose: la prima, ovviamente, è recuperare i soldi dalle redazioni, se queste hanno trattenuto dei pagamenti o addirittura non ne hanno mai versati. La seconda, è segnalare la questione all’ordine perché provveda al riconoscimento della carriera e all’iscrizione del lavoratore nell’elenco, e la segnalazione dei direttori “immorali”». Non si segnalano differenze tra aspiranti redattori e redattrici «che io abbia visto non ci sono discriminazioni di genere, e in quei casi in cui siamo intervenuti per il riconoscimento della carriera, come in Football News, siamo riusciti a far valere i diritti degli assistiti. Per quanto riguarda le possibili sanzioni ai direttori, purtroppo non ho informazioni su che cosa accada una volta che viene trasmessa notizia all’ordine». Le segnalazioni spesso partono da terzi, come la community online “Lo Spioncino dei freelance” che raccoglie le segnalazioni dei compensi e delle tariffe di state grandi e piccole. «Il problema è anche la miriade di casi che ci si trova ad affrontare. Con la crisi dell’editoria ci si trova davanti a un’offerta sterminata e a una domanda molto ridotta – commenta Naccari-. Per cui spesso ci si accontenta di scrivere per veramente poco».
Al già citato Spioncino dei freelance arrivano quasi quotidianamente segnalazioni, anche su grandi gruppi, di tariffe da fame e compensi mediocri. Certo,nel 2012 si era provato a introdurre un tariffario minimo per il lavoro giornalisti; peccato che, di nuovo, l’accordo valga solo per i giornalisti iscritti all’albo. E allora, come riferisce Francesco Guidotti (che insieme alla giornalista e ideatrice Guia Baggi ha co-fondato nel 2022 il portale) arrivano diverse segnalazioni di partite iva a basso costo dai guadagni non proprio lauti. Una segnalazione riguardo il sito Notizie.it: “Non ho accettato di collaborare con questa testata, dato che la paga è di 2 euro al pezzo. Oltre alle 200 parole (sono notizie flash) chiedono anche inserimento di immagini e una SEO piuttosto dettagliata, con guida punto per punto su come inserire titolo, H2, H3 keyword ecc, link esterni e interni (lavoro di circa mezz’ora)”. Tuttavia, come fa notare Guidotti, fa ridere amaro pensare che non va meglio a chi sceglie testate più blasonate, considerando che un giornale come il Resto del Carlino, ad esempio, paga i collaboratori 9 euro lordi per un pezzo di 2000 battute.
Chi scrive spesso si trova a dover fronteggiare le critiche (non sempre immotivate) di chi soprattutto in Italia vede nella stampa una sorta di megafono del potere o di partito. Eppure, come ha anche sottolineato Milena Gabanelli nella sua rubrica DataRoom, queste critiche sono delle stesse persone che non sono disposte a pagare un prezzo equo per un’informazione libera, indipendente, incondizionata. È anche questa mentalità a permettere il perpetrarsi di un sistema di sfruttamento, dove un prodotto poco remunerativo genera legioni di diseredati privi di diritti. Che per forza di cose, per poter sopravvivere fino alla fine del mese, devono vendere la penna (e la propria imparzialità) al diavolo.
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