Giornalismo
G. Pancheri, Sky Tg24: “quello che mi preoccupa oggi in Europa è la tensione sociale”
Giornalista esperta di esteri, non ha fatto il classico percorso di formazione, ma appassionata di Europa fin da giovanissima ha fatto esperienze di studio all’estero e un master al Collegio d’Europa. Entra in Sky e a 29 diventa inviata a Bruxells e poi a New York, segue tutti i fatti principali degli ultimi 15 anni, dalle migrazioni al periodo degli attentati in Francia, fino alle prime elezioni di Trump. Giovanna Pancheri, oggi conduce START un programma in onda tutte le mattine su SKY Tg24, dove si parla di politica.La incontro a Roma e ne approfitto per farle qualche domanda sul sogno americano e su come cambierà l’Europa di fronte al risultato delle elezioni americane e dei fatti che stanno succedendo in Medio Oriente.
Questa è solo un’anticipazione di un’intervista integrale che sarà pubblicata nella seconda metà del 2025, in un libro intitolato “Giornaliste Italiane” un progetto nato con l’editore Luca Sossella e che comprende già un primo volume “Giornalisti Italiani” attualmente in libreria. L’idea è quella di proseguire il viaggio, iniziato con i giornalisti, attraverso la storia del giornalismo italiano e del nostro Paese, dagli anni ’70 a oggi. Come già successo per le interviste ai giornalisti, anche per questo secondo volume, alcune parti delle interviste alle giornaliste, soprattutto quelle che riguardano argomenti di attualità, saranno pubblicate in anteprima su GliStatiGenerali.
In uno dei tuoi interventi all’evento il “Futuro è oggi” organizzato da Domani dici che a volte nel tuo programma Start, quando inviti i politici italiani per un confronto fra maggioranza e opposizione, hai paura dell’effetto pollaio. Come è cambiato il modo di raccontare la politica in tv e cosa manca a tuo avviso?
Oggi assistiamo spesso all’effetto pollaio ed è quello che cerco di evitare, invitando solamente due persone appartenenti a parti contrapposte, oppure se sono Ministri, Presidenti di Regione, Leader di partito li invito da soli. Nel mio programma “Start” il tempo dedicato ai politici è di 30 minuti, invitarli da soli o al massimo con la controparte mi permette di dare loro più spazio, quando vedo che iniziano a parlarsi sopra, intervengo subito, perché credo profondamente che lo spettatore a casa non capisca quali siano le posizioni e non riesca a crearsi la propria opinione su temi importanti, anche chi ha già un’idea politica è giusto che, su determinati temi, possa ascoltare entrambe le posizioni. In Italia viviamo il grande problema dell’astensionismo alle elezioni, è importante che il pubblico possa capirne di più ed essere invogliato ad andare a votare, l’effetto pollaio non aiuta a raggiungere questo scopo.
Nel tuo libro “Rinascita americana. La nazione di Donald Trump e la sfida di Joe Biden” uscito al termine della prima presidenza Trump dici che hai riconosciuto l’esistenza di un’ingenuità europea, e poi nel successivo libro dedicato sempre all’America “L’impero americano. Storia della politica estera USA da Panama all’Ucraina” parli di come l’America rappresenti, nonostante tutto, l’idea di un sogno. Alla luce del risultato delle nuove elezioni credi che l’ingenuità e quel sogno siano ancora presenti in Europa?
Il sogno sì, ma dobbiamo fare un distinguo. Per gli europei il sogno americano è sempre stato quello della terra delle opportunità, se hai un’idea vincente puoi trovare il modo di realizzarla. Invece il sogno americano per gli americani è un’altra cosa, è riuscire a comprarsi la casa, mandare i figli al college, avere un lavoro e l’assicurazione sanitaria. Quindi nonostante i buoni risultati macro-economici che ha ottenuto Biden, l’inflazione ha penalizzato molto la classe media. Anche nel 2016, un certo tipo di classe povera, è stata sì vittima di una globalizzazione che ha dato i suoi vantaggi, ma in termini occupazionali non è stata governata. In queste elezioni le persone colpite maggiormente dall’inflazione hanno visto in Trump l’opportunità di un cambiamento. Inoltre negli Stati Uniti sei abituato a pensare che il sogno americano è alla portata di tutti, quindi se non raggiungi l’obiettivo la colpa è tua, sei tu che non sei stato abbastanza bravo, non hai studiato, non ti sei impegnato abbastanza. È lo stesso concetto su cui si fonda la mancanza di politiche di welfare, perché se tu non riesci a permetterti l’assistenza sanitaria è un tuo problema, io ti ho dato tutte le opportunità. Su questo Trump ha cambiato molto il paradigma, dando la colpa al sistema, ai politici e non al singolo. Per quanto riguarda l’ingenuità, una cosa che mi aveva colpita molto, durante i miei anni in America, è che i giornali, i media, sono molto orientati politicamente, quindi è difficile fare una corretta informazione allargata, perchè chi vota per Trump non guarderà mai la CNN, quindi mancano fonti di informazione che siano riconosciute autorevoli e possano essere seguite da tutti.
Quali sono i cambiamenti che più dobbiamo temere a seguito del risultato di queste elezioni?
L’errore è pensare che ci sia già stato un governo Trump e quindi poco cambi. Credo che i trumpiani convinti siano solo una minima parte, molti lo hanno votato perché lui ha promesso di abbassare le tasse e ridurre l’inflazione. Tant’è che negli Stati in bilico la ricerca più digitata su Google, nella notte fra il 4 e 5 novembre è stata “come posso cambiare il mio voto?”. Io credo che questa volta sarà diverso, lui sarà molto più radicale rispetto alla sua prima presidenza, lo si vede già dalla nomine che sta facendo, non farà prigionieri, perché non ha ambizioni per un altro mandato e ha dalla sua un partner come Elon Musk, che gli permette una libertà di potere non indifferente. L’America sarà più radicale nelle sue posizioni e per l’Europa questa non è una buona notizia.
Tu hai vissuto e ci hai raccontato in diretta l’annus horribilis della Francia, di cui hai scritto anche nel tuo libro “Il buio su Parigi”, cosa ti ricordi di quei momenti, sia a livello personale sia professionale?
È stata un’esperienza molto forte, sia umanamente sia professionalmente, perché è stato il primo vero impatto con il terrorismo di matrice islamica, in Europa. Il giorno di entrambi gli attentati ero in Italia e sono ripartita subito. Il 7 gennaio 2015, mentre stavo andando in aeroporto, chiamai in redazione per dire di cercare un’intervista a Stéphane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, che avevo fatto due anni prima, non sapendo ancora che era rimasto ucciso nell’attentato. L’intervista, trattava questi temi, perché lui era già finito sotto scorta per alcune vignette su Maometto, va in onda mentre io sono in viaggio e in quel momento esce la notizia che lui era fra le vittime. Lavoravamo stando per strada 16 ore al giorno, in una città a me molto cara, dove avevo amici e conoscenti e che in quel periodo era totalmente sconvolta, una città in guerra nel cuore dell’Europa, credo che per quelli della mia generazione sia stato una dei fatti più toccanti. Professionalmente è stata l’occasione per farmi conoscere da un pubblico diverso, più ampio.
Considerato il nuovo assetto politico dell’Unione Europea e i fatti che stanno accadendo in Medio Oriente, credi che si possa riproporre in Europa il clima di 10 anni fa?
No, non credo siamo in quella fase, perché forse l’asse si è un po’ spostata, in questa crisi medio-orientale l’Europa è irrilevante. Quello che oggi mi preoccupa in Europa è una lettura dei fatti ideologica, che negli ultimi anni ha creato delle fazioni profondamente in conflitto l’una contro l’altra, che non si ascoltano, non dialogano, è un clima molto pericoloso sul fronte dell’antisemitismo, perché si rende responsabile tutto un popolo delle azioni di un governo e dall’altra parte si radicalizza anche l’altro fronte. Più del terrorismo da fuori, dobbiamo preoccuparci di fenomeni di tensione sociale interni che si vanno ad acuire con il conflitto in medio-oriente.
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