Diritti
Vocabolarietto portatile – Dignità
A prendere sul serio la democrazia parlamentare e a voler considerare freddamente i suoi portavoce come elementi rappresentativi dell’elettorato che li esprime, perfino il più irriducibile ottimista potrà difficilmente evitare di concludere che la liquidazione della dignità umana sia ormai fatto compiuto.
Che la retorica progressista su “dignità e diritti umani” non abbia mai conosciuto diffusione lontanamente paragonabile all’attuale non fa che aggravare la situazione aggiungendo alla liquidazione un sovrapprezzo di intollerabile ipocrisia.
La ferocia infatti lavora sottotraccia, come un fiume carsico e quando occasionalmente emerge suscita una incredulità e uno stupore che appaiono del tutto fuori luogo e non fanno che contribuire alla catastrofe.
Perciò lo schifo che si prova davanti alla efferata bestialità di una società che reclama capri espiatori con la bava alla bocca – si chiamino fannulloni, terroni, mangiabanane o terroristi – rischia di diventare autodistruttiva.
La tentazione di tagliare i ponti con ogni forma di comunicazione con questa barbarie è fortissima: smetterla con la tv, i giornali, internet…e starsene in santa pace.
Ma così facendo si finirebbe per spegnere, oltre alla tv, alla radio e al computer, anche se stessi, trasformandosi in mummia – per definizione in pace con se stessa ma isolata in un sarcofago. Non c’è da fare altro, allora, che coltivare l’indignazione con un poco d’ironia che la stemperi e provare a tenere la rabbia alle dimensioni di un bonsai.
Per evitare di farsi male da solo o di far male agli altri.
Così si vive peggio, forse. Ma almeno, finché dura, si vive.
Con quel poco di dignità che consentono i tempi.
Uso, s’intende, la parola “dignità” con un poco di ritrosia e ogni volta che lo faccio mi sembra di camminare su un filo. Il senso della parola è cangiante, come sfocato, mai precisamente circoscritto. Sta in bilico su un crinale sdruccioloso. Scivola, ora da una parte ora dall’altra e quasi mai rimane illesa.
In bocca a chi ostenta la divisa del dignitario (giudice, accademico, notabile, cavaliere…) è facilmente indegna. Pronunciata invece da chi è giudicato istituzionalmente indegno (buttana, ladro, assassino, terrorista…) accade, talvolta, che suoni degnamente.
I greci ne custodivano il senso in un lemma che nulla ha a che vedere con quella tarda “dignitas” ereditata dei romani: axioma – che vuol dire, per inciso, anche quello che sembra voler dire in tutta evidenza, cioè “assioma”.
Ma le due parole – “dignitas” e “axioma” – intendevano davvero la stessa cosa?
E’ certo che “dignitas” non ha, dal punto di vista linguistico, relazione con “axioma” e condivide invece – con “dignus” da cui prende forma – la stessa radice di “decentia” (decenza) e “decor” (decoro), ma anche di “docere” (che tra i suoi significati ha quello di “mostrare”) e “dicere” (che può essergli quasi sinonimo nell’accezione di “illustrare”). In questa bizzarra divergenza emerge, come puoi intuire, quella diversità tra la forma mentis greca e quella romana (poi, ahinoi, italica…) che a Simone Weil faceva ammirare la prima e detestare la seconda. Formale, pomposa e tendenzialmente autoritaria una, sostanziale, asciutta e tendenzialmente democratica l’altra. Non è ovviamente un caso se la romanità è stata il riferimento iconografico e soprattutto scenografico del fascismo; il quale, in forza della piccola borghesia inviperita, sua colonna portante, con quella dignità che fa il paio con “decenza” e “decoro”, ci va a nozze – Dio, Patria e Famiglia.
L’assioma, dice il vocabolario, è un principio per sé evidente che non ha bisogno di essere dimostrato. Se poi si consulta il dizionario dei sinonimi e dei contrari si scopre un elenco di parole indicate come antitetiche: errore, falsità, menzogna. Si dà ora il caso che queste parole – opposte alla dignità intesa come assioma, non negoziabile e assolutamente non rappresentabile – non siano invece affatto dato originario agli antipodi di quella “dignità” decorativa e teatrale così tipica del dignitario italico: decenza, decoro e la forca per chi non si adegua. Anzi, non solo non le sono agli antipodi…direi piuttosto che le si avvinghiano come l’edera alle rovine. Un mio antico insegnante di filosofia però, quando qualcuno partiva per la tangente, con gentilezza gli chiedeva: “Per cortesia, puoi farmi un esempio?” Perciò, per chiarire, farò un esempio.
In questi giorni si assiste a un sontuoso dispiegamento di dignitari che s’inalberano fieramente per il pericolo che corre la loro dignità e, in conseguenza, quella dello Stato. Siccome pare che l’anarchia, come uno spettro, s’aggiri per l’Europa, distese di toghe, di ermellini, di feluche e di gagliardetti fremono al vento delle parole d’ordine:
“Lo Stato che cede al ricatto non è più credibile” (Casini)
“Lo Stato non si piega a minacce e ricatti” (Tajani)
“Lo Stato non deve cedere al ricatto dei bombaroli” (Sallusti).
Ecc.ecc.
I dignitari insomma s’indignano, ne va del loro decoro e del decoro dello Stato.
Non saprei davvero trovare esempio migliore di quella dignitas a tempo di marcia di cui parlavo prima.
Da chi proviene il diabolico ricatto?
Da un uomo. Solo e per di più morente.
E da dove questo Prete Gianni esercita il suo malvagio potere?
Dalla galera.
Una galera in cui proprio quei dignitari e i loro sodali l’hanno rinchiuso e lo tengono in isolamento come una bestia: in nome della dignità dello Stato.
Quello Stato che, come i suoi dignitari, dignità da difendere, da decenni dimostra di avercene tantissima.
Ma con quali potenti mezzi lo spaventoso individuo riesce ad esercitare l’indegno ricatto?
Con il suo puro esistere.
Cosa glielo consente?
Non toga né feluca.
Niente altro che la sua personale DIGNITA’ di essere umano.
Axioma.
Qui non sono in questione le mutande del decoro né la canotta della decenza.
Non c’è toga né feluca che ne rappresenti l’assioma.
Quell’assioma non è infatti rappresentabile.
E’, come dice il dizionario, “un principio per sé evidente che non ha bisogno d’essere dimostrato”.
Quel malvagio, quel pericolo pubblico, quel mostro, ha dunque solo la sua esistenza da mettere in gioco.
Per vivere come un uomo e non come una bestia.
In ambedue i casi dunque è in questione la “dignità”.
Solo che non si tratta affatto della stessa cosa.
Ciascuno scelga poi quella che preferisce.
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